Aspetto multicolore, vivo e sfaccettato della Napoli preunitaria
di Francesco Antonio Schiraldi
“Le carrozze che nel tardo pomeriggio percorrevano a gran carriera Via Chiaia; le ballerine di tarantella con le loro nacchere; le torreggianti alture e le terrazze dei giardini digradanti nello sfondo; l’isola di Capri accoccolata sulla scintillante linea delle acque; le barche da pesca, le reti, i monelli ignudi che cercavano telline fra gli scogli di Mergellina oppure si tuffavano simili a delfini per ripescare i carlini gettati in mare dagli stranieri; gli ombrosi viali della Villa Reale, dove la brezza tentava invano di strappare dalle statue le foglie di fico; il fertile e cencioso traffico sul Molo, con i cantastorie, i burattinai, i venditori di cento mercanzie, i frati questuanti, i marinai, le risate delle donne, i milioni di arance in arrivo da Sorrento, le sete e i vini solforosi della Sicilia; il frastuono carnevalesco intorno a Castel Capuano; le file di barche sulla spiaggia di Santa Lucia, con i frutti di mare disposti con fine decorativo per stuzzicare l’appetito, insieme a festoni di limoni rischiarati di sera dalle vacillanti lampade; e, di notte, le lunghe collane di diamanti gialli splendenti sullo sfondo di velluto della baia, sotto la minacciosa collina incoronata di fiamme cremisi…questo era l’aspetto multicolore, vivo, sfaccettato di Napoli”.[1]
Così Harold Acton, storico inglese, descrive la Napoli preunitaria e della dinastia dei Borbone. Nel suo voluminoso saggio, Gli ultimi Borboni di Napoli, Acton, citando il collega storico e filosofo Thomas Carlyle, così puntualizza: “Dopo tutto, la Storia è la vera Poesia; e la realtà, se interpretata nel modo esatto, è più grande del Romanzo. Anzi, nella giusta interpretazione della Realtà risiede l’autentica poesia. E io presumo di poter asserire senza arroganza che la mia è la giusta interpretazione della storia dei Borboni di Napoli”.[2] Una puntualizzazione che lo storico inglese ha ritenuto necessaria, a fronte della parziale interpretazione operata sui Borbone dalla storiografia ufficiale, agiografica nei confronti dei Savoia quanto eccessiva nella damnatio memoriae della dinastia napoletana. Come osservato dal celebre Denis Mack Smith[3], infatti, “vi è una tendenza generale a giustificare i vincitori e a condannare i vinti. Io [scrive Acton] ho tentato di ristabilire l’equilibrio”.[4]
Sappiamo come Napoli sia oggi spesso svilita da intollerabili pregiudizi, eppure, economicamente e finanziariamente, Napoli contribuì alla ricchezza dell’Italia Unita più di ogni altro Stato preunitario. I dati e le cifre sono riportati da Francesco Saverio Nitti in Nord e Sud (1900), come pure in altri scritti mai confutati.[5] In particolare, nella sua Scienza delle Finanze, Nitti fornisce il computo della ricchezza dei diversi Stati al momento dell’unificazione: Regno delle Due Sicilie 443,2 milioni di lire oro, Lombardia 8,1, Ducato di Modena 0,4, Romagna, Marche e Umbria 55,3, Parma e Piacenza 1,2, Roma 35,3, Piemonte, Liguria e Sardegna 27, Toscana 84,2, Veneto 12,7. Contro i 443 milioni in oro corrisposti all’atto delle nozze dal Regno delle Due Sicilie, pertanto, il resto d’Italia, cioè oltre i due terzi della Penisola, non portò in dote neppure la metà di questa somma.
Per opportunità di ragguagli bisogna aggiungere che l’economista e politico Michele Vocino, nel saggio Primati del Regno di Napoli, registra come in Italia la prima ferrovia, il primo telegrafo elettrico, il primo faro lenticolare, insieme a un gran numero di innovazioni nell’ingegneria e nell’industria, furono dovuti proprio alla Napoli dei Borbone[6] e in particolare a Ferdinando II, sovrano troppo trascurato dalla storiografia ufficiale, ma da riconsiderare alla luce di una critica storica più puntuale.
Abbiamo fatto cenno in precedenza alla Napoli odierna, oggetto frequente di oltraggi intollerabili esito di squallore e malanimo, ma com’era la Napoli preunitaria ossia la vita che scorreva nella Napoli dei Borbone?
Harold Acton scrive nel suo saggio che a Napoli, nel 1837, affluirono più di settemila stranieri, molti dei quali sostarono per settimane, se non mesi o anni. Altri stranieri scelsero la città come luogo di cura, in cui ritornare ogni anno. Tali visitatori non erano ossessionati dal fattore tempo, come succede ai turisti di oggi, avevano più danaro da elargire a guide, cocchieri, albergatori, negozianti. L’industria del turismo, in Italia, cominciò a svilupparsi proprio a Napoli, sono infatti numerosi i libri di viaggi dell’epoca nei quali gli autori dedicano a Napoli un maggior numero di capitoli, rispetto a tutte le altre città italiane[7].
Ecco in proposito le impressioni riportate nella capitale partenopea da James Fenimore Cooper[8]: “Il luogo è inesauribile in fatto di divertimenti all’aperto…Il molo e il lido che si stende dal Castel Nuovo sino al limite orientale della città, offrono straordinari spettacoli”, per concludere dopo aver trascorso l’estate a Sorrento, “considero in genere la popolazione di questo paese una delle più belle che io abbia mai veduto”.[9]
Più articolato il contributo fornito da Thomas Babington Macaulay, storico e politico britannico, giunto nel 1839 a Napoli dall’India, dove per quattro anni era stato membro del Consiglio Supremo Indiano. Queste le sue impressioni di consumato scrutatore dei fatti umani e sociali: “Debbo dire che le descrizioni da me udite in precedenza erano molto imprecise. Qui ci sono meno mendicanti che a Roma e più industrie…Appena entrati a Napoli, vedrete uno stridente contrasto: una differenza come fra la domenica e il lunedì. Qui è evidente che la vita civile è la cosa più importante, mentre la religione è accessoria…Al momento attuale, le mie impressioni sono favorevolissime. Napoli è l’unica città d’Italia dove mi è parso ritrovare quella medesima specie di vitalità che si vede in tutte le grandi città d’Inghilterra. Roma e Pisa sono morte; Firenze non è morta, ma dorme; Napoli invece straripa di vita”.[10]
L’aspetto multicolore, vivo e sfaccettato della Napoli preunitaria, c’è da domandarsi il perché del venir meno di questa posizione di preminenza negli anni che hanno fatto seguito all’unità. E se la causa fosse da individuare nel dirigersi troppo altrove favore e prodigalità dello Stato unitario a scapito della capitale partenopea e dell’antico suo territorio?
(Immagine tratta da ‘Il blog di Villa Oliviero Positano’)
[1] Harold Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, 1961, Giunti Martello, Firenze, 1962-1968-1973, pag.400 ss.
[2] Harold Acton, cit., pag.12
[3] Denis Mack Smith (1920 – 2017) è stato uno storico e biografo britannico specializzato nella storia d’Italia.
[4] Harold Acton, cit., pag. XV.
[5] Francesco Saverio Nitti (1958 – 1963) è stato un economista, politico, Presidente del Consiglio e più volte ministro.
[6] Michele Vocino (1881 – 1965) è stato Direttore Generale presso il Ministero della Marina, Consigliere di Stato, uomo politico e saggista. Nel suo volume Primati del Regno di Napoli (1961), sulla base di un’ampia documentazione, ha mostrato come il Meridione prima dell’unità non fosse così arretrato, ma possedesse punti di forza non sufficientemente valorizzati negli anni post unitari ad opera di uno Stato nuovo ma negligente verso i territori a sud.
[7] Harold Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, cit., pag.176
[8] James Fenimore Cooper (1789 – 1851) è stato un popolare scrittore statunitense, la cui opera più famosa è il romanzo L’ultimo dei Mohicani, considerato da molti il suo capolavoro.
[9] James Fenimore Cooper, Excursions in Italy, London, 1838, cfr. Harold Acton, cit., pag.176-177.
[10] Harold Acton, cit., pag.177
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