L’ecologia profonda

di Sandro Marano

 

Nel pensiero ecologista una distinzione di grande rilievo è quella tra ecologia profonda ed ecologia di superficie. La distinzione, che sottintende un diverso approccio alla crisi ambientale, si deve al filosofo norvegese Arne Naess ed è stata consacrata nel 1984 nella “Piattaforma dell’ecologia profonda” in otto punti stesa dallo stesso Naess e dal filosofo americano George Sessions.

In breve, per l’ecologia di superficie il problema ambientale si riduce ad una migliore gestione dell’ambiente in vista del benessere o della salute dell’uomo. È un approccio che non esce dall’antropocentrismo e soprattutto non intacca la concezione di fondo dominante nella civiltà industriale. Per l’ecologia profonda, invece, che si richiama ad una visione biocentrica (l’uomo è solo una specie animale, sia pure con una sua specificità, nel cosmo) o ecocentrica (l’uomo fa parte dell’ecosfera e la nostra specie non è particolarmente privilegiata), non basta, per quanto sia utile, ridurre l’inquinamento e conservare alcune isole di natura, occorre mettere in discussione la cultura dominante nella nostra civiltà, in particolare il modello industrialista che è, nella sua essenza, profondamente antiecologico, perché sta distruggendo la Terra e la biodiversità biologica e culturale.

Per una messa a punto dell’ecologia profonda, di quel che la caratterizza e la distingue rispetto ad altri indirizzi di pensiero è senz’altro utile leggere il bel libro di Guido Dalla Casa L’ecologia profonda (Mimesis, 2011) con sottotitolo Lineamenti per una nuova visione del mondo. Il libro si segnala sia per lo stile asciutto e preciso (l’autore, ricordiamolo, è stato ingegnere elettrotecnico dell’ENEL ed è attualmente docente presso la Scuola Superiore di Filosofia orientale di Rimini), sia per l’ampia messe di citazioni e per lo stimolante confronto con le tendenze attuali del pensiero scientifico, dalla biologia alla fisica, dalla psicanalisi alla cosmologia.

Per illustrare la differenza tra le due ecologie Guido Dalla Casa fa l’esempio della salvaguardia delle foreste: «l’ecologia di superficie vuole salvare le foreste perché senza di esse l’umanità non può vivere e l’atmosfera terrestre ne resta alterata; l’ecologia profonda vuole salvare le foreste, oltre che per la ragione precedente, perché sono sacre». Per l’ecologia profonda, infatti, tutti gli esseri viventi e gli ecosistemi hanno un valore in sé, «tutta la Natura ha un valore intrinseco e unitario».

Va peraltro messo in rilievo che l’ecologia profonda non è nata nella seconda metà del Novecento dalla riflessione di filosofi e naturalisti: infatti da migliaia di anni ha permeato tante culture come quelle animiste e indù, ben diverse da quella che ha foggiato la civiltà occidentale. C’è alla base dell’ecologia profonda una visione del mondo che potremmo definire tradizionale, che rifiuta il mito del progresso e dell’espansione economica e rispetta gli equilibri naturali. È la visione del mondo esposta, ad esempio, magistralmente e poeticamente, dal capo indiano Seattle nel 1854 nella sua risposta al Presidente degli Stati Uniti, che proponeva l’acquisto delle loro terre, di cui  riportiamo un piccolo passaggio: «Questo noi sappiamo: la terra non appartiene all’uomo; l’uomo appartiene alla terra… L’uomo non ha intrecciato il tessuto della vita: egli è semplicemente un filo di essa. Qualsiasi cosa faccia al tessuto, la fa a se stesso…».

Prevenendo a questo punto una facile e scontata obiezione, Dalla Casa dichiara: «Non si vuole sterilmente cercare di riproporre il passato, ma per individuare le caratteristiche indispensabili di società stabili e capaci di risolvere i problemi attuali dobbiamo trarre ispirazione dalle società tradizionali».

Va comunque precisato che entrambi gli indirizzi dell’ecologia, sul piano della prassi, si incontrano: i rimedi di emergenza (non inquinare, installare filtri e depuratori, puntare sulle fonti rinnovabili e sulle 3 R, cioè nell’ordine riduzione, riuso, riciclo, ecc.) sono comunque necessari prima che i tempi lunghi dei rimedi di fondo possano agire: «in questo mondo dominato dalla religione industriale-tecnologica, anche la posizione di superficie è assai utile, soprattutto per salvare isole di Natura e per guadagnare tempo, dando così qualche possibilità di diffusione a filosofie naturali più profonde».

Il punto da tener presente è che «nell’ecologia profonda non si tratta di coniugare sviluppo e ambiente ma di rendersi conto che il dramma ecologico è nato nella civiltà industriale». Come scrive incisivamente l’autore, lo sviluppo economico non fa altro che sostituire materia inerte a sostanza vivente, «macchine, impianti, strade al posto di foreste, paludi, savane». Se non si arrestano la crescita economica e la crescita demografica, se non si mettono in discussione i fondamenti della nostra civiltà, la catastrofe è più che certa, come è dimostrato dall’analisi critica del concetto di crescita esponenziale.

A ciò si aggiunga che tra degrado dell’ambiente e qualità della vita c’è un nesso assai stretto: «se si potesse disegnare un diagramma che riporta l’andamento del benessere psicofisico in funzione dei consumi materiali, non si avrebbe una funzione sempre crescente, ma una specie di curva a campana. Ad una certa quantità di beni materiali la funzione raggiunge un massimo: il corrispondente valore di consumi è già stato abbondantemente superato in tutto il mondo occidentale. Un ulteriore aumento peggiora la qualità della vita. Se poi mettiamo in conto anche la bellezza del mondo e il benessere degli altri esseri senzienti, la situazione si aggrava ulteriormente».

Insomma, un’economia in continua crescita si rivela un fenomeno patologico che, se non arrestato, porta necessariamente al collasso.
Il limite dell’ecologia di superficie è, per l’appunto, quello di non essere risolutiva. Prendiamo, ad esempio, il problema energetico: «supponiamo che la produzione industriale e i consumi di energia aumentino con legge esponenziale con un tempo di raddoppio di venti anni. Facciamo poi l’ipotesi di ottenere un risultato eccezionale, cioè di diminuire il consumo di energia per unità di prodotto del 50%: ciò significa consumare la metà di oggi per ottenere la stessa produzione industriale. In tal caso per venti anni il consumo energetico resta lo stesso, e poi riprende a salire […]. Abbiamo soltanto guadagnato venti anni per ritrovarci gli stessi problemi. La vera causa dei guai è il tabù della crescita». Per l’ecologia profonda, invece, è chiaro che «non possiamo non vivere in condizioni stazionarie, perché questo è l’unico modo di funzionare della Biosfera».

Alla domanda sul perché il dramma ecologico è nato proprio nella cultura occidentale, l’autore risponde chiamando sul banco degli imputati sia il paradigma filosofico (Cartesio e il meccanicismo) e quello scientifico (Bacone e Newton e il materialismo), che si sono affermati tre secoli fa, dando luogo alla rivoluzione industriale, sia la religione giudaico-cristiana, che ha trovato nell’Antico Testamento la sua fonte ispiratrice e che ha finito per favorire quel processo. Dalla Casa  ha cura di precisare che «con cultura “ebraico-cristiana” si intende indicare la tradizione quale si è sviluppata negli ultimi quindici secoli dando luogo alla civiltà occidentale, senza assolutamente convalidare l’idea che questa cultura si sia ispirata all’insegnamento di Cristo. Al contrario, l’insegnamento di Cristo ha contestato profondamente e radicalmente le concezioni del Vecchio Testamento: la prova più evidente è che Egli fu condannato a morte proprio per questo […]. L’insegnamento di Cristo assomiglia molto alle filosofie di derivazione orientale, con le quali ha in comune idee fondamentali, come l’accettazione, il distacco dalle cose del mondo, l’amore universale, l’inutilità delle istituzioni».

Dalla Casa imputa infatti – e crediamo non a torto – alle religioni del libro (giudaismo, cristianesimo, islamismo), che propongono un’idea di un Dio personale ed esterno al mondo, di non avere alcuna considerazione per il mondo naturale, di essere antropocentriche, a differenza di altre religioni in linea con l’ecologia profonda come il Taoismo e il Buddismo, che non contemplano un Dio-persona, oppure come le culture native, che considerano la divinità immanente alla Natura.

Dopo quattro anni dall’ultima edizione aggiornata de L’ecologia profonda, è stata pubblicata nel giugno 2015 l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, che obiettivamente rappresenta una lodevole svolta nell’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti del mondo naturale (preceduta invero da vari spunti e passi, soprattutto della Centesimus annus di Giovanni Paolo II e della Spe salvi di Benedetto XVI). A questo proposito concordiamo con quanto osservato da Dalla Casa: «L’Enciclica contiene importantissime condanne della crescita economica e dell’impiego dei combustibili fossili, ma condanna ancora una volta il controllo delle nascite e il Biocentrismo (nessuna idea di Ecocentrismo), inoltre non fa quasi nessun accenno alla sofferenza degli altri esseri senzienti. In sostanza contiene pesanti contraddizioni interne, pur costituendo una notevole novità nella storia della Chiesa, perché riconosce finalmente una certa spiritualità anche al mondo naturale. Da parte delle altre religioni abramitiche: silenzio.» (Il coronavirus e il mondo nuovo, 20/03/2020, in rassegna stampa dell’Arianna editrice).

Effettivamente, l’Enciclica ha il grosso limite di  condannare  ancora una volta il controllo delle nascite. Contrariamente a quanto si afferma nel paragrafo 50 dell’enciclica, non si possono risolvere i problemi dei poveri e pensare ad un mondo diverso, se non si riduce drasticamente la natalità, se non si prendono adeguati provvedimenti internazionali di contenimento dell’abnorme crescita demografica. L’impatto ambientale infatti è dato da tre fattori concorrenti: popolazione, produzione e tecnologia. Ora, per poterlo ridurre efficacemente, occorre intervenire necessariamente su tutt’e tre i fattori, cioè sul numero degli uomini, sulla quantità di beni prodotti e sul modo in cui i beni sono prodotti.

All’obiezione che l’ecologia profonda non avrebbe pratica efficacia, così risponde Dalla Casa: «L’ecologia profonda è un sistema di pensiero: non richiede azioni drastiche o violente né dimostrazioni plateali. Un movimento si ispira all’ecologia profonda se ne segue la radicalità del pensiero e intacca alla radice gli attuali fondamenti culturali, non se compie azioni fanatiche o di rottura. Non si può comunque dimenticare che per modificare il sottofondo filosofico del pensiero generale e quindi l’atteggiamento verso la Natura occorrono tempi lunghi».

Che fare, dunque? L’azione più utile resta quella di diffondere il più possibile le idee dell’ecologia profonda, contrastando le idee dominanti, «magari col sorriso» e confidando che cambi il prima possibile il paradigma su cui si regge la nostra civiltà.

 

 

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