La ragione storica come racconto
di Sandro Marano
In un breve e compendioso saggio, Storia come sistema, pubblicato nel 1935 (ora in Aurora della ragione storica, Sugarco, 1994), Ortega y Gasset scriveva che «la storia è la scienza sistematica della realtà radicale che è la vita».
La vita come realtà radicale
Per realtà radicale Ortega intende quella nel cui ambito appaiono tutte le altre, anche quelle cui attribuiamo maggior valore come Dio. La vita di ciascuno invero è «il fatto che precede tutti gli altri». E la vita dell’uomo, che è l’oggetto della storia, si svolge di continuo e sempre tra passato e futuro, si presenta da un lato come scelta tra varie possibilità di essere, dall’altro come limitazione, perché è una scelta che non può non tener conto di ciò che siamo stati: «di fronte a noi ci sono le diverse possibilità di essere, ma alle nostre spalle c’è ciò che siamo stati […], se guardiamo in controluce la consistenza del nostro presente, restiamo sorpresi dal fatto che la nostra vita è composta da ciò che ciascuno di noi è stato per conto suo e insieme agli altri».
Il passato come momento d’identità
L’esperienza di ciascuno di noi non è costituita solo da quello che abbiamo vissuto personalmente, ma anche dalla storia che ci viene tramandata dalla società in cui viviamo. Il passato fa parte del nostro presente, è per l’uomo il momento dell’identità, il dato inesorabile e fatale di cui tener conto.
Don Giovanni che brama una nuova avventura è anche la storia dei suoi amori, delle sue esperienze, delle sue difficoltà e dei suoi successi. La civiltà europea è anche l’uomo greco-romano e l’uomo cristiano, è il feudale e il borghese, il socialista e il liberale, il fascista e il democratico.
L’uomo come pellegrino dell’essere
Ma “l’essere stati” è, paradossalmente, la forza che ci impedisce di esserlo ancora. Possiamo tutt’al più guardare al passato con nostalgia, ma il progetto di vita è sempre qualcosa di nuovo, è sempre una delle possibili risposte alle difficoltà del presente. Per questo, dice Ortega, «la vita è un dramma»: è «un gerundio e non un participio», un farsi e non un fatto. Può accadere di andare verso il meglio o verso il peggio. In questo senso l’uomo è davvero «il pellegrino dell’essere». E qui il filosofo spagnolo evidenzia l’errore del progressismo che ritiene aprioristicamente che il cambiamento sia comunque un progresso, mentre ciò potrà essere affermato solo dalla ragione storica a posteriori, da una ragione cioè che racconti quel che siamo stati e ci sveli il perché di come siamo. Un concetto simile, se vogliamo, a quello espresso da Battisti nella canzone Con il nastro rosa (1980) quando canta: «chissà chi sei, chissà che sarai, chissà che sarà di noi, lo scopriremo solo vivendo».
La credenza come terraferma
Ma nel continuo cambiamento della nostra vita c’è una terraferma? C’è qualcosa a cui aggrapparsi? Certamente. È quello in cui crediamo. La credenza non è semplicemente l’idea che pensiamo, ma è l’idea che pensiamo e in cui crediamo. Non è un’opinione individuale, ma un’opinione collettiva. Non può farsi una diagnosi di un uomo, di un popolo, di un’epoca storica senza individuare qual è la sua credenza fondamentale, «quella che sostiene e vivifica tutte le altre».
Nel medioevo, ad esempio, la credenza dominante era la fede in Dio. «Senza di essa e tenendo conto solo delle sue forze si sarebbe sentito incapace di far fronte al misterioso ambiente che il mondo costituiva, alle disgrazie e ai dolori dell’esistenza. Credeva con fede viva che un ente onnipotente, onnisciente, gli svelasse gratuitamente tutto ciò che era essenziale per la sua vita. Possiamo seguire le vicissitudini di questa fede e assistere, generazione dopo generazione, alla sua progressiva decadenza. È una storia malinconica. La fede viva comincia a non essere più alimentata, a impallidire, a paralizzarsi, fino a che verso la metà del XV secolo quella fede diventa in modo evidente una fede stanca, inefficace. L’uomo di quel tempo comincia a sentire che non gli basta la rivelazione per chiarirgli le sue relazioni con il mondo: ancora una volta l’uomo si sente perduto nell’aspra selva dell’universo. Per questo il secolo XV e il secolo XVI sono due secoli di grande malessere, di atroce inquietudine, come oggi diremmo di crisi. Una nuova fede, una nuova credenza salva l’uomo occidentale: la fede nella ragione, nelle nuove scienze. Il Rinascimento è l’inquietudine che partorisce una nuova fede fondata sulla ragione fisico-matematico».
La crisi della ragione fisico-matematica
Se la magnifica costruzione dantesca della Divina commedia rappresenta sul finire del XIV secolo il canto del cigno del mondo medievale, il Discorso del metodo di Cartesio rappresenta invece il canto del gallo del razionalismo, «l’emozione mattutina che inaugura un’intera età che chiamiamo Età Moderna».
Oggi però stiamo assistendo all’agonia di questa Età Moderna. Che la ragione possa fare luce su tutto, che il mondo abbia una struttura razionale che può essere colta dalla ragione fisico-matematica, che la tecnica possa risolvere tutti i problemi dell’uomo, tutto ciò appare sempre più come un pregiudizio, un’illusione. Del resto, la stessa fisica più recente ammette senza remore che la conoscenza scientifica ha un carattere simbolico. La fisica non ci pone in contatto con alcuna realtà, è una costruzione intellettuale, che si interpone tra la realtà e la persona, come riconosciuto anche dagli attuali filosofi dell’ecologia come Arne Naess e Guido Dalla Casa. «Il mondo fisico appare non come una realtà, ma come una grande macchina che l’uomo manipola e utilizza. Ancora è rimasta un poco di fede nella fisica, ma è ridotta a essere fede nelle sue utilizzazioni».
La fede nella ragione fisico-matematica a partire dal Novecento è stata via via messa in discussione, si è illanguidita, da fede viva, che influisce efficacemente sulla nostra vita, è diventata fede inerte, che si trascina stancamente come luogo comune, come superstizione.
Di contro, si è rafforzata la consapevolezza che la scienza non ha nulla di preciso da dire intorno ai grandi problemi dell’esistenza umana. «L’umano sfugge alla ragione fisico-matematica come l’acqua dal canestrino», dice icasticamente Ortega. Ed aggiunge: «In fondo [l’uomo] è già un po’ stufo di astri, di reazioni nervose e di atomi».
La scoperta della ragione vitale e storica
Il fallimento della ragione fisico-matematica non significa però, per Ortega, abbandonarsi all’irrazionalismo o al nichilismo, ma lasciare aperta la strada ad una ragione vitale e storica, ad una ragione cioè che aderisca alla vita e consista in una narrazione di ciò che è accaduto all’uomo. Ortega ha cura di precisare che per ragione storica non deve intendersi una ragione extrastorica che si compia nella storia alla maniera di Hegel, ma, letteralmente, ciò che è accaduto all’uomo. «L’essere dell’uomo è mero accadere e accadergli: gli accade di essere stoico, cristiano, razionalista, vitalista. Gli accade di essere la femmina del paleolitico e la marchesa di Pompadour».
La ragione storica si fa dunque racconto (e Ortega ne dà un magnifico saggio in quel testo del 1933 che può considerarsi, se non il suo capolavoro, il suo testo più suggestivo, Intorno a Galileo). Solo facendosi narrazione la ragione può rendere un po’ più trasparente la vita.
(in foto: Ortega y Gasset)
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