L’avventura come desiderio insopprimibile: Jules Verne
di Cosimo Rodia
L’avventura è un modo in cui si dipana una storia e attraversa, evidentemente, diversi generi. Si può parlare di avventura quando i protagonisti superano situazioni imprevedibili e rischiose con audacia. Generalmente troviamo la partenza dell’eroe verso luoghi pericolosi e ignoti da attraversare; nei romanzi classici i luoghi misteriosi sono foreste tropicali, oceani, zone artiche, si pensi a I libri della giungla (1893-1895) di Rudyard Kipling (1865-1936), a Moby Dick (1851) di Herman Melville (1819-1891), a Zanna bianca (1906) di Jack London (1876-1916) o ancora a Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe (1660-1731), o a L’isola del tesoro (1881-1882) di Robert Louis Stevenson (1850-1894). Nel viaggio non mancano i rischi gravi e gli scontri con nemici terribili o animali feroci, così come è presente la lotta con le forze della natura: bufere, tempeste, sabbie mobili. Il lettore si identifica e trepida con le peripezie dell’eroe, che è sempre giovane, bello, impavido, leale, altruista.
L’avventura in Jules Verne
Jules Verne (1828-1905) è uno scrittore su cui si è scritto molto e sul quale probabilmente rimane poco da aggiungere. Schematizzando i caratteri che l’hanno reso uno dei giganti della letteratura giovanile mondiale, famoso anche per le innumerevoli trasposizioni cinematografiche, spesso di qualità, va detto che i suoi romanzi costituiscono un esempio d’avventura, oltre che l’inizio del genere fantascientifico.
Verne ha scritto romanzi che hanno realmente anticipato le scoperte scientifiche dell’età contemporanea. La sua perspicacia, in realtà, non era preveggenza, ma studio approfondito, attraverso riviste e libri, di ipotesi che il mondo della ricerca avanzava, e da lui utilizzate come materiale narrativo. Alla base dei suoi vari romanzi (64 oltre a 18 racconti) c’è l’avventura, che, impregnata di positivismo, si carica di tensione verso la conoscenza; ovvero, avventura come missione, per andare al di là dei limiti della conoscenza e innescare un processo di miglioramento umano e civile. Vanno ricordati a riguardo Viaggio al centro della terra (1864) o Ventimila leghe sotto i mari (1870), in cui la narrazione si sofferma su aspetti particolari di conoscenze geografiche o astronomiche; romanzi che in alcuni punti diventano trattati di scienze, tanto che le pagine con spiegazioni e esattezze sciorinate, sgranano l’iniziale alone di mistero ingenerato dalla narrazione.
La convinzione di fondo è che la conoscenza (scienza) salva l’uomo. Nemo, il protagonista di diversi romanzi, da Ventimila leghe sotto i mari a L’isola misteriosa (1874), risolve problemi grazie alle sue abilità che gli permettono di trovare una via d’uscita osando, ipotizzando, proprio come fa lo scienziato. Tuttavia la scienza e il progresso, se non seguono le ragioni etiche, si rivoltano contro; infatti, ne L’isola misteriosa l’esplosione dell’isola si porta con sé il Nautilus con il capitano Nemo. La scienza evidentemente da sola sarebbe cieca; Hiroshima docet. Scrive Nobile: «Il messaggio di Verne, pur improntato a fiducia della scienza risolutrice e salvifica, è inequivocabile: l’uomo non osi l’inosabile, non valichi i limiti delle sue possibilità, oltre le quali si stagliano la Fede e il Mistero»[1] . Per Giancane[2] l’opera di Verne oggi può sembrare ingenua e poco adatta ai nostri ragazzi, abituati a ben altre meraviglie della scienza e della tecnologia; riconosce però al “solitario di Amiens” il merito storico di aver aperto la strada ad una letteratura diversa, permeata di “meraviglioso scientifico”; ma evidentemente l’ottimismo verso la sacralità della scienza quale maestra di progresso è ormai un relitto del passato.
Ne Il giro del mondo in ottanta giorni (1873) Verne si tiene lontano da trattati scientifici, per aprirsi invece all’avventura pura, al feuilleton, al macinare esperienze senza una grande meta da raggiungere. È vero che nel romanzo testé citato, il viaggio è innescato dalla scommessa, ma rispetto alla mole delle esperienze e degli ostacoli superati, è ben poca cosa; anzi è evidentemente una risibile motivazione per girare il mondo. E lo scorrere dei giorni, in un certo senso, è un modo per incalzare la narrazione e renderla carica di attese al cardiopalma.
Il plot è notissimo. Un ricco gentlemen inglese, Phileas Fogg, passa il tempo al club a giocare al whist, le cui vincite sono devolute in beneficenza. Un giorno si lascia coinvolgere in una scommessa bizzarra e, a quei tempi, difficilissima: fare il giro del mondo in ottanta giorni. Mr. Fogg parte con il domestico Passepartout la sera stessa, il 2 ottobre alle ore 21, per essere di ritorno a Londra il 21 dicembre alla medesima ora. Nella stessa giornata avviene una rapina alla Banca d’Inghilterra e l’ispettore Fix sospetta proprio di Mr. Fogg, tanto che lo insegue per tutti i continenti. Il percorso prevede di raggiungere per primo Suez, poi Bombay, Calcutta; quindi Hong Kong, Yokohama , San Francisco; New York, infine Londra. Il viaggio scorre come un orologio che scandisce il tempo che passa; con l’ispettore Fix sempre alle calcagna; in più una serie di avventure e peripezie, in cui i protagonisti mettono a repentaglio spesso la vita. Audace il salvataggio della bella Auda in India, predestinata al sacrificio umano alla dea Kalì o l’incontro con gli indiani Sioux e la liberazione di tre uomini, tra cui Passepartout, che avrebbe potuto far perdere al gentleman inglese la scommessa. Il capitolo trenta è un crescendo, con uno straordinario climax:
«Con questa decisione Mr. Fogg sacrificava il suo progetto. Aveva appena pronunciato il verdetto per la sua rovina. Un solo giorno di ritardo gli avrebbe fatto perdere il piroscafo a New York. La sua scommessa era persa inequivocabilmente.
Ma sapeva che non poteva decidere diversamente: questo era il suo dovere e non aveva esitato»[3].
La narrazione è una continua corsa contro il tempo, che avvince anche per le imprese o gli imprevisti superati. L’ultimo, in ordine cronologico, è quando Mr. Fogg crede di aver perso la scommessa, che in realtà vince, perché senza rendersene conto è rientrato un giorno prima, in quanto aveva compiuto
«il giro del mondo viaggiando verso ovest. Andando a est Fogg andava incontro al sole e, quindi, i giorni per lui diminuivano di tante volte quattro minuti, quanti erano i gradi che percorreva in quella direzione.
Sulla circonferenza terrestre si contavano trecentosettanta gradi, moltiplicati per quattro minuti, danno precisamente ventiquattro ore»[4].
Vince la scommessa e nel mettere sul piatto della bilancia i vantaggi che gliene sono derivati, Verne dice, con semplicità:
«Cosa ci aveva guadagnato veramente?
Cosa aveva portato a casa da questo viaggio?
Niente, si direbbe, assolutamente niente.
Tranne una splendida donna [Auda], che lo rese uno degli uomini più felici del mondo»[5].
Un romanzo avvincente, un’esaltazione dell’avventura pura, per il gusto di viaggiare e di superare ostacoli, con il riferimento a valori forti, come la lealtà, l’amicizia, la vita umana.
Probabilmente è anche questo il motivo per cui secondo una classifica dell’Unesco, è uno dei romanzi più letti.
Non secondario – va ricordato – è lo stile del romanzo, che si avvale di coinvolgenti intrecci e di una prosa scattante, rapida ed essenziale, ravvivata da un tono espressivo spesso umoristico, con descrizioni mai indugiate e mai tediosamente finalizzate a erudire il lettore.
A ben leggere, dunque, nel Verne è possibile trovare, come ha scritto la Tibaldi Chiesa: «Tesori d’arte e d’umanità, di piacere e di commozione, di arguzia e di umorismo […], di immaginazione e di sogno»[6].
[1] A. Nobile, Letteratura giovanile, cit. , p. 182.
[2] Cfr. D. Giancane, I ragazzi e la lettura, cit., p. 184.
[3] J. Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni, B. Mondadori, Milano 2007, p. 195.
[4]Ivi, p. 238.
[5]Ivi, p. 240.
[6] M. Tibaldi Chiesa, Letteratura infantile, Garzanti, Milano 1969, p.173.
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