Oh, quante belle scuole…
di Italo Spada
Nel cinema, come nella realtà, la scuola ha più di una faccia.
Tralasciando volutamente sia le varie scuole di sport, di guida, di medicina, di polizia, di ladri, di mostri, di hostess e di sesso (che, sfruttando il successo commerciale, finiscono spesso con il riproporre in serie soggetti scontati), sia quelle “classiche” che si occupano della formazione dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani (delle quali si parlerà più specificatamente in seguito), prendiamo in esame un campionario di scuole “sui generis”, certamente incompleto, ma significativo della pluralità dell’insegnamento.
Nella scuola tenera e, spesso, divertente dei bambini delle elementari, una citazione di merito, almeno per quanto riguarda il cinema italiano, va alla trasposizione filmica di Cuore di Edmondo De Amicis.
Già nel 1947 appare sugli schermi un film di Duilio Coletti, con Vittorio De Sica nei panni del maestro Edmondo Perboni e Maria Mercader in quelli della maestrina dalla penna rossa. Nella versione televisiva del 1984 Comencini affida gli stessi ruoli a Jonny Dorelli e a Giuliana De Sio. In ambedue le versioni si respira l’atmosfera nostalgica della scuola di altri tempi: non soltanto quella dell’Italia che alla fine dell’Ottocento “fremeva amor di patria”, ma anche quella presessantottina, che all’arrivo del docente faceva scattare in piedi gli alunni e definiva “infame” un bambino che, rimproverato dal maestro, reagiva all’umiliazione cui era sottoposto il proprio genitore con un sorriso più nervoso che cattivo.
Anche Giacomo Campiotti – se proprio non ci si vuole soffermare sullo splendido affresco tratteggiato da Federico Fellini in alcune sequenze del suo Amarcord (1974) – fa ricorso alla memoria e alla nostalgia di un mondo scolastico scomparso. Il suo Corsa di primavera (1989) narra le vicende di tre bambini di provincia che vivono le avventure infantili, le iniziazioni della loro età, un piccolo giallo scolastico e le vacanze di Natale con la stessa aria magica che uno sgangherato circo di guitti riesce a suscitare negli animi semplici di chi non conosce ancora la malizia.
Ben diversa è, invece, la scuola elementare di Corzano descritta dal maestro Marcello D’Orta in Io speriamo che me la cavo e portata sullo schermo nel 1992 da Lina Wertmuller. Infatti, se la scolaresca fa sorridere gli spettatori e disperare il maestro Marco Tullio Sperelli (un ottimo Paolo Villaggio), il degrado e l’impotenza dell’istituzione di fronte alla miseria e alla camorra lasciano l’amaro in bocca e il film diventa un grido di accusa alla violenza e alla disperazione del sud.
La scuola di Paolo Barca, maestro elementare, praticamente nudista, realizzato da Flavio Mogherini nel 1975, è solo un pretesto per parlare del bigottismo, delle voglie sessuali represse e dei pregiudizi del Sud; il coro dei bambini è secondario rispetto a quello delle maestre che mirano ad avere un’avventura con Renato Pozzetto, il collega venuto dal nord.
Dai bambini ai grandi.
Ne Il grano è verde (The Corn is Green) (1945) di Irving Rapper, la coraggiosa maestra Miss Moffat si dedica all’istruzione dei minatori gallesi. Siamo alla fine dell’Ottocento e il mondo del lavoro ha ben poco da spartire con quello della cultura; per questo l’impresa della docente rischia di fallire più d’una volta. Poi, la svolta decisiva e il meritato premio alla costanza: un alunno lascia la miniera e va ad Oxford.
Resteranno, invece, dove e come sono (a Napoli e con i loro problemi di sopravvivenza) i simpatici alunni adulti di Così parlò Bellavista, il film realizzato da Luciano De Crescenzo nel 1984. La loro scuola è “casereccia” e le lezioni del Professor Gennaro Bellavista, il “geometra della felicità”, profumano di filosofia greca e di vita, di Vesuvio e di caffè, di allegria e di odori di cucina.
Per niente simpatiche sono, al contrario, le scuole severe (e, a volte, anche sadiche) di alcuni colleges (e collegi italiani) e dei militari. Significativi, a tale riguardo, gli anni in cui vengono realizzati i film che seguono: dopo il Sessantotto per il cinema europeo e a seguito della disastrosa guerra del Vietnam per quello americano.
1969: Lindsay Anderson gira If... (Se…), la storia di tre matricole di un college inglese che, dopo aver subito le violenze e le repressioni di un sistema d’insegnamento militaresco, scaricano la loro ribellione durante la festa di fine anno scolastico, appostandosi sui tetti e sparando sui professori e sui compagni. I bambini di Jean Vigo sono cresciuti e hanno affilato le armi: non più le cuscinate e i mattoni di Zéro de conduite, ma i proiettili.
1972: arriva sugli schermi Nel nome del padre di Marco Bellocchio. Questa volta è preso di mira un collegio gestito da religiosi; la formazione che i giovani ricevono è falsa e, dietro i principi religiosi, si celano interessi economici e frustrazioni. All’arrivo di un convittore ribelle le tensioni latenti diventano contestazione dichiarata; gli studenti borghesi fanno comunella con i servi proletari per una rivolta che non si ferma nemmeno di fronte all’iconoclastia.
1987: Stanley Kubrick denuncia, con Full Metal Jacket, le contraddizioni dell’addestramento militare. Nel campo di Parris Island alcuni giovani si preparano a diventare marines. I metodi usati dal sergente Hartman sono, però, particolarmente violenti: i deboli non resistono, i forti si trasformano in killers, gli psicolabili diventano schizofrenici. Uno dei ragazzi, Pyle, uccide l’istruttore e si suicida; altri vanno a morire in Vietnam.
Più socialmente utili appaiono altre scuole, come quelle che mirano al recupero dei portatori di handicap, o quelle che tendono al reinserimento sociale dei carcerati.
A tal proposito, fra tanti film, particolare attenzione meritano Figli di un dio minore (Children of a Lesser God) di Randa Haines e Mery per sempre di Marco Risi.
Con Figli di un dio minore (Children of a Lesser God) (1986) Randa Haines fece il suo fortunato esordio nella regia.
Il copione, tratto da un testo teatrale di Mark Medoff, si propone di affrontare il problema dell’handicap, ma il film dopo le prime sequenze diventa una storia di amore (conclusasi anche fuori dal set). Il successo di critica e di pubblico si concretizzò nell’Orso d’argento vinto al festival di Berlino e nell’Oscar assegnato alla debuttante Matlin, realmente sordomuta.
Questo il soggetto: in una scuola americana per non udenti – “figli di un dio minore”, per dirla con il poeta Alfred Tennyson – arriva un insegnante dai metodi rivoluzionari. Parallelamente all’interesse per i suoi allievi, nasce in lui anche l’affetto per Sara, un’inserviente sordomuta dalla nascita, non accettata dai genitori, tanto bella quanto testarda. Malgrado le difficoltà di comunicazione, i due si innamorano e Sara va a vivere con l’uomo che l’ama. Il loro rapporto, tuttavia, rischia più volte di interrompersi. Poi – come il copione esige e come lo spettatore si attende – il ricongiungimento tra Sara e la madre, l’accettazione reciproca dei pregi e dei difetti dei due protagonisti e la presa di coscienza dell’impossibilità di vivere l’uno senza l’altra.
Mery per sempre (1989) di Marco Risi è “nel bene e nel male, uno dei film italiani che hanno più segnato gli ultimi anni.” (Dizionario dei Film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi) Interpretato da attori non professionisti (ad eccezione di M. Placido, C. Amendola, T. Sperandeo), parlato in dialetto, contenente scene ostentatamente crude, è stato visto dai critici come il film che ha dato il via alla cosiddetta corrente del neo-neorealismo.
Tratta dal libro autobiografico di Aurelio Grimaldi, la vicenda narra di un professore alla ricerca del suo primo impiego che, in mancanza di meglio, accetta l’unica cattedra ancora disponibile: quella della scuola del carcere minorile di Malaspina a Palermo. I suoi alunni sono giovani detenuti pieni di problemi e di frustrazioni. Qualcuno è già un delinquente incallito, qualche altro medita vendette, la Mery del titolo è un “femminiello”: tutti sono poco interessati alle lezioni. Nonostante le difficoltà, il coraggioso docente riuscirà se non altro ad infondere nei suoi alunni la speranza e il rispetto di se stessi.
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