di Giorgia Loi Si parla spesso ultimamente di impoverimento della nostra lingua, dell’inevitabile e inarrestabile avanzata digitale che in maniera impietosa, quasi violenta, sembra fagocitare ogni aspetto della nostra esperienza mortificando le care, buone, vecchie pratiche, che non sarebbero tutte da buttar via.
Se ne parla, ma non ancora abbastanza, e forse non nel modo dovuto. Gli studenti di oggi hanno un vocabolario che si è ridotto notevolmente, non sanno coniugare i verbi, scrivono poco, leggono ancora meno, vivono proiettati perennemente in una realtà virtuale che ha un linguaggio tutto suo, fa a meno di virgole e punti, crea criptovocaboli che farebbero accapponare la pelle al nostro amico Dante e hanno sostituito gli emoticon alle parole per esprimere gli stati d’animo. Ce ne sarebbe già abbastanza per inorridire e correre subito ai ripari, se non fosse che, purtroppo, a soffrirne è una ristretta categoria di persone che, nelle aule scolastiche, tocca con mano i danni di questa tendenza in atto già da qualche decennio ed oggi arrivata alla sua massima manifestazione, complice anche l’esplodere della pandemia, diventata ormai la giustificazione di certi provvedimenti politici dietro cui si nasconde invece, un preciso disegno trentennale di distruzione della scuola come baluardo della Costituzione. Sarebbe da ingenui pensare che questa involuzione, ammantata di retorica progressista, fosse solo un processo casuale, figlio dei tempi.
La lingua, e la lingua madre in particolare, è lo strumento primario della nostra comprensione del mondo ed è il modo privilegiato attraverso cui cerchiamo il contatto e la relazione con l’altro. Per capire ci servono le parole, cosí come per partecipare attivamente alla trasformazione della società. Se De Mauro qualche anno fa denunciava che nel ventennio 1976-1996 gli studenti liceali avrebbero perso un migliaio circa di parole, si può immaginare quale può essere stato il trend dal ’96 ad oggi, col favore delle riforme neoliberiste della scuola, da cui si evince che i politici hanno capito bene quanto sarebbe potente un popolo che conosce e padroneggia tutti i segreti della propria lingua madre. Parole, verbi, virgole e punti, la mano che scorre libera sul foglio e trasforma in lettere ciò che la mente e il cuore dettano. Il congiuntivo, che pare sia rimasto solo un modello buono per le vecchie grammatiche, è diventato inutile e addirittura d’intralcio alla semplificazione della società tecnologica che ha fatto della sintesi il suo Dio e del modernismo digitale il suo fine ultimo.
Mentre saper coniugare il congiuntivo significa essere consapevoli di sé e degli altri, dare al proprio pensiero le molteplici sfumature di senso che l’indicativo non ammette. Il congiuntivo è il modo dell’anima, della creatività, delle infinite possibilità del reale ed anche dell’irreale, dell’ipotesi e del desiderio. È grazie al congiuntivo che noi possiamo dubitare, accogliere il pensiero dell’altro e prenderne il buono che vi è, mescolarlo al nostro, trovare dei compromessi che fanno funzionare la relazione. Il latino prevede addirittura “il congiuntivo di modestia”, come modo per smorzare il tono di chi parla o chi scrive ponendo il livello delle sue argomentazioni sul piano del possibile e non dell’assoluto. Una bella lezione, insomma, alla prepotenza che dilaga nella società dei social, alla violenza dei salotti televisivi e alla pretesa di essere nel giusto sbandierata da tanti opinionisti dell’era digitale. Se volessimo parafrasare Hannah Arendt, potremmo parlare di “Banalità della tecno-dimensione”, uno scivolone verso il basso mentre dall’alto ci stordiscono con paroloni quali “scuola del futuro”, “scuola affettuosa”, “apprendimento attivo”, per non parlare di acronimi e inglesismi come “character skills”, “flipped classroom”, “cooperative learning”, “debate”, che, come insegnano i migliori esperti di comunicazione massmediale (vedi Chomsky), servono solo a rendere incomprensibili ai più i reali piani del decisore politico. Non c’è bisogno di essere complottisti per capire questo.
Con una lingua più povera, involgarita, privata delle essenziali sfumature di senso e sostanza, non ci può essere vera democrazia, né progressismo di sorta, ma semmai involuzione e imbarbarimento, il rischio di nuove forme di dittatura che la massa non sarà in grado di riconoscere ed arginare perché priva di strumenti. Nel 2019 Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, dichiarò in un’intervista al “TPI” che “per educare alla lingua ci sarebbe voluto un programma di governo molto più ampio, molto più preciso e scientificamente fondato. Questo non c’è mai stato.” Ergo lo studio dell’italiano, oggi, diventa una necessità storica, il suo potenziamento dovrebbe essere un tema cardine nelle riforme. Invece, ahinoi, così non è. Allo stesso modo, nell’immediato, si sente l’urgenza che il Ministro innanzitutto interloquisca con i docenti, che ogni giorno entrano in classe conoscendo i reali bisogni della scuola e quindi che si pronunci al più presto sul destino delle prove scritte all’Esame di Stato. Serve un legislatore che sappia guardare alla scuola con l’attenzione del pedagogo e il coraggio del dissentire dal sistema che vorrebbe ridurre tutto al mercato, alla spendibilità in termini economici. La scuola non è un ufficio di collocamento, non prepara al lavoro, ma alla vita e nessuna spinta che si definisca progressista può negare quest’evidenza. Il contenuto della lettera è stato discusso e condiviso da un Gruppo di docenti di diverse parti d’Italia, denominato: “La nostra scuola: Cultura, passione e relazione”, promotore tra l’altro del Manifesto della Nuova Scuola, sottoscritto anche da Dacia Maraini, Vito Mancuso, Tomasi Montanari, Massimo Recalcati, Gustavo Zegrebelski, Salvatore Settis, Lucio Russo, Adriano Prosperi, Filippomaria Pontani, Donata Meneghelli, etc.. Al contenuto e al progetto di futuro del Gruppo, il direttore di Interzona.com si associa. (Articolo apparso su “La Tecnica della Scuola” il 19/11/2021)