è questa roccia d’ombra traforata
dai lumi e dalle voci senza fine,
la quiete d’una cosa già pensata. Ah questa luce viva e chiara viene
solo da te, sei tu così vicina
al vero d’una cosa sconosciuta,
per nome hai una parola e s’è perduta. Caduto è più che un segno della vita,
riposi, dal viaggio sei tornata
dentro di te, sei scesa in questa pura
sostanza così tua, così romita
nel silenzio dell’essere, compiuta.
L’aria tace ed il tempo dietro a te
si leva come un’arida montagna dove vaga il tuo spirito e si perde,
un vento raro scivola e ristagna. A suo modo, figlio e, al tempo stesso, padre dell’ermetismo italiano, Mario Luzi, impregna la sua poesia di inquietudine e malinconia. I suoi versi sempre intrisi di una modernità fatta di immagini e di sonorità mai scontate. In “La sera non è più la tua canzone” si cantano piccoli frammenti di esistenza in cui il tempo diventa elemento non afferrabile, paradigma e simbolo della fragilità umana. Tutta la lirica denota un ineludibile senso di smarrimento in cui la speranza pare cedere all’impossibilità di ricomporre una qualsiasi armonia. Un perpetuo oscillare tra paesaggi cupi e remoti ed angoli di vita quotidiana. (Cosimo Lamanna) ANNA RITA MERICO È nata a Nola (Na) e risiede in Salento. Ha pubblicato: “Era un raggio…entrò da Est” (2020, Musicaos ed.); “Fenomenologia del silenzio” (Musicaos ed. 2022). Scrive su “Interzona news”; è presente su blog e riviste online/cartacee. Nome (di Anna Rita Merico) <Cos’è quell’osso appeso alla porta?> <L’ho preso sul sentiero> <Tibia, omero, perone?> <Non so. Emergeva dal permafrost della notte uncino attaccato al dente di un’imprecazione Pulsazione rosa d’insonnia trafittura di molle nerbo di radice Insensatezza di fremito guaito di volontà> <Posso prenderlo? mi serve per attraversare questa terra di nessuno nuovo incantesimo di viaggio visionario onda altra d’alterazione che crea. Dammi quell’osso che possa governare il mio volto sfigurato dal gelo la ripugnanza che fa fuggire da me l’umano l’immensità della mia resistenza. Il mio occhio vaga tra l’alto del volo e il basso dell’abnorme Nani e Titani fuori dalla misura dentro l’iniziazione. Dammi quell’osso è l’osso servito a Kaspar angelo caduto è l’osso che nessuno ha mai visto è l’osso dentro cui hai suonato l’ultima nota del lieder su cui poi hai riso è l’osso su cui inciderò il mio nome dopo averlo trovato> * Name <What is that bone hanging on the door? > <I caught it on the path> <Tibia, humerus, fibula? > I don’t know. It emerged from the permafrost of the night a hook tied to the tooth of an imprecation Pink pulsation of insomnia piercing of softness backbone of a root Nonsense of a tremor yelp of will> <Can I take it? I need it to cross this no man’s land A new spell for visionary journey Another wave of the alteration it creates. Give me that bone so it can rule my face disfigured by frost the repugnance that makes the human flee from me the immensity of my resistance. My eye wanders between the height of the flight and the low of the abnormal Dwarves and Titans outside the measure inside the initiation. Give me that bone it is the bone Kaspar used fallen angel it is the bone no one has ever seen it is the bone with which you played the last note of a lieder at which you then laughed it is the bone on which I will carve my name after having found it> (Traduzione di Emanuela Chiriacò; Revisione di Rishi Dastidar) Una poesia oscura, dai richiami e dalle associazioni personali. I versi iniziano con un’allegoria o con una sineddoche: l’osso come resti dei desideri, ovvero ciò che rimane di una persona; l’osso come un segno tangibile di un passaggio, di una tragedia, di incompiutezza (visti i ‘guaiti’). Un segno del passato che convalida una identità=radice che potrebbe aiutare ciò che ripugna, ovvero lo stare in mezzo tra la bestia e il superuomo. Forse quell’essenza (o quell’osso) è servito a Kaspar a superare la cacciata dal Paradiso. Versi drammatici ed esistenziali, di una poesia come ricerca. (Cosimo Rodia) Jouni Inkalam (1966) Dolore fantasma E se il mal di schiena fosse il dolore fantasma della coda che un tempo avevamo? Il dolore del collo quello del carapace? Le spalle dolenti per le ali soprattutto dopo aver scritto a lungo? E se i nostri capelli, i nostri peli discendessero dalle piume e se i nostri zoccoli si fossero appiattiti sotto il nostro peso diventando piedi? E se le orecchie derivassero dalle pornografiche cavità rosse delle branchie? È possibile allora che il nostro passato sia stato tracciato da ossa di pesce? Che scivoliamo senza accorgercene verso un tempo supplementare? Le onde e il pacifismo degli oceani contemporanei. Poiché non possiamo sapere quali venti alimentino ancora le basse pressioni. Chi può dire perché possiamo passare da due piedi ad uno, perché i nostri muscoli gluteali crescono unendo le cavità del ginocchio e perché viviamo per vedere il giorno in cui le madri sono gusci d’uovo dentro i quali i figli nascono e crescono, finchè si chiudono nella maggiore età ridecretata. (da All’equinozio d’autunno, ed. Il ponte del sale, 2017) La potenza del monologare nelle terre estreme del Nord assume toni, colori che sono geneticamente diversi dagli azzurri accesi dell’Egeo. Tonalità dell’anima per tonalità della parola. Qui, a Nord, la parola ci calamita il tra sé e sé di nordici incanti. È luogo di trasparenza dell’essere. È pensiero d’intrecci senza quasi presenza umana. È affondo acuto, a tratti snervante, con l’assoluto d’ogni essenza. È tutt’uno con l’arcaico della forma acquatica che torna per compiere ciclo di vita. È slabbramento del tempo che misura tempo. È diverso il tempo della visione e della evoluzione. Il fondo del gelo detta richiamo acuto e nota scura accesa. È lama di sogno che invade la realtà ridisegnandone contorno. È interrogazione d’origine, ancora, in una latitudine che, misteriosamente, ci intriga. Dall’intera Penisola Scandinava ci giungono le molteplici voci sull’origine, sul mito che c’impongono silenzio d’ascolto e movimento lento in un verso che ritma la propria differenza. Jouni Inkala ci indica l’universalità della poesia finnica, la ricchezza delle sue proto immagini, lo sfolgorante delle sue odierne innovazioni. È un rapporto con il Sacro ed il Luogo che ci affonda dentro interrogandoci e tenendoci in un contatto colmo di orizzonti con la poesia dell’intero globo. Mi affascina stare dentro mondi minuti, diamantini in grado di colloquiare con il mondo tutto. Jouni Inkala, finissimo pensatore e poeta, sa donare ciò. (Anna Rita Merico)