Così infatti si dice.
Ma, se non scrittori, i poeti chi sono – I poeti – la poesia, gli scrittori – la prosa. Nella prosa può esserci tutto, anche poesia,
ma nella poesia deve esserci solo poesia – In sintonia col manifesto che l’annuncia
con lo svolazzo liberty d’una P maiuscola,
iscritta nelle corde d’una lira alata,
dovrei, più che entrare, arrivare volando – E non sarebbe meglio scalza,
che con queste scarpe da quattro soldi,
pesanti, scricchiolanti,
goffa sostituzione d’un angelo? – Avessi almeno un vestito più lungo, più lieve,
e versi che escono così, dalla manica,
da festa, da parata, da grande occasione,
un dan don,
ab ba ba – Ma là sul palco guata già un tavolino
da seduta spiritica, coi piedini dorati,
su cui fuma un piccolo candeliere – Ne deduco che
dovrò legger al lume di candela
ciò che ho scritto a macchina
tac tac tac alla luce d’una lampadina – Senza preoccuparmi in anticipo
se sia poesia
e quale poesia – Se del genere in cui la prosa è malvista –
O del genere che è benvisto in prosa – E qual è la differenza,
percepibile ormai solo nella penombra
sullo sfondo d’un sipario bordò
con frange viola? Autoironia, autoreferenzialità in questa poesia della Szymbowska e un interrogativo: ” Ma se non scrittori, i poeti chi sono-“ e un’affermazione: Nella prosa può esserci tutto, anche poesia, ma nella poesia dev’esserci solo poesia. È evidente il dualismo poesia-prosa, prosa-poesia , così come risalta la magia della parola poetica. La poetessa risponde a sé stessa attraverso un susseguirsi di immagini che incalzano, fatte di uno svolazzo liberty di una P maiuscola , di una lira alata, e un “non sarebbe meglio scalza”, piuttosto “che con le scarpe da quattro soldi, pesanti, scricchiolanti, goffa sostituzione d’un angelo?” E magari con “un vestito lungo, più lieve, e versi che escono così dalla manica, da festa, da parata, da grande occasione…” Emerge, accanto alla levità, la goffaggine del poeta, o meglio della poetessa in questo caso, (vedi Albatros di Baudelaire). E gli interrogativi si traducono in immagini, sospese tra sogno e realtà. La POESIA si materializza su un palco e un tavolino da seduta spiritica, coi piedini dorati, su cui fuma un piccolo candeliere a legger a lume di candela ciò che è stato scritto a macchina tac tac tac alla luce d’una lampadina-Senza preoccuparsi in anticipo /se sia poesia/ e quale poesia-/Se del genere in cui la prosa è malvista- O del genere che è benvisto in prosa. E un ultimo quesito: “ E qual è la differenza,/ percepibile ormai solo nella penombra/sullo sfondo di un sipario bordò/con frange viola? (Giulia Notarangelo) Tre Passere (di Giulia Notarangelo) Aj vicule tre passere iocano a nascon Ässaupre I mére assunnete i gabbiene appriesse i viende fine Pece as córe che rembombe pe niente Tre Passeri (1) Nel vicolo tre passeri giocano a nascondino Sul mare sonnacchioso il gabbiano segue la brezza sottile Pace al cuore che sobbalza per un nonnulla. NUNZIA PICCINNI Dottoressa in Lettere moderne e in Storia della Filosofia, è scrittrice, grafologa, critico letterario. Ha pubblicato: “La notte spezzata”, “Ieri e Oggi”, “Partecipando”, “Come acqua che scorre”. Su Instagram ha creato il blog letterario: “VERSIDIVENTO”, in cui pubblica riflessioni e recensioni, collaborando con autori, case editrici e riviste di settore. Dietro uno specchio (di Nunzia Piccinni) Ho sparso qua e là note di me, della musica che ho dentro, dei miei alti e bassi, delle mie stonature e dei miei giri di valzer. Ho gettato a ripetizione sassi piccoli e grandi per svegliare lo stagno in cui nuotano i miei pensieri. Ho riaperto i bauli impolverati della mia memoria per trovare le chiavi di segreti non ancora svelati. Ho ascoltato il silenzio di gente che andava via, per soffocare la mia ombra che piange, urla e si dispera. Ho tagliato acque scure e maledette per riemergere dagli abissi dei miei peccati. Ho sputato sangue e veleno per macchiare di rosso e nero la mia cruda trasparenza. Ho annusato il dolore degli altri per sentire l’odore del mio tormento. Ho graffiato sulle spalle del tuo rifiuto per tracciare nuove strade dove correre e sudare. Ho scritto parole di fuoco e versi di vento per incendiare il mio corpo e far volare le mie ceneri. * Behind mirror I have scattered here and there notes of me, of the music that I have inside, of my ups and downs, of my false notes and of some of my flawless emotional journeys. I repeatedly threw small and large stones, to awaken the pond in which my thoughts swim. I reopened the dusty trunks of my memory, to find the keys to secrets not yet revealed. I listened to the silence of people leaving, to choke my shadow that cries, screams and despairs. I tread dark and cursed waters, to re-emerge from the abyss of my sins. I spat blood and poison, to stain my raw transparency with red and black. I smelt the pain of others, to smell my own torment. I scratched upon the burden of your refusal, to trace new paths where to run and sweat. I wrote fiery words and verses made of wind, to set my body on fire and make my ashes fly. Versi di rinascita dopo aver messo a fuoco l’abitare ‘abissi’ e ‘tormenti’. Direi un Io che si autodistrugge per rinascere, come le chimere, che è pure la condizione di riacquistare un nuovo habitus. (Cosimo Rodia) Vincenzo Cardarelli (1887-1959) Gabbiani Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro, in perpetuo volo. La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch’essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca. Vincenzo Cardarelli fu uno dei protagonisti della nostra vita culturale nel periodo tra le due guerre, non solo per la sua produzione in poesia e prosa, ma anche per la battaglia letteraria che egli condusse in difesa di una misura classica dell’arte. Sulla sua poetica la critica si è divisa. C’è chi ha parlato di freddezza retorica, disimpegno politico e civile, staticità dello stile. E c’è chi invece ha visto nel poeta l’uomo “coi suoi umori, le sue ire, le sue avventure” (Sapegno). In “Gabbiani”, intensamente autobiografica, di fronte a uno scenario marino, solcato da un irrequieto volo di gabbiani, il poeta si sorprende a ripensare alla propria vita. La lirica, con versi in prevalenza endecasillabi e settenari, testimonia la dolorosa condizione di chi non riesce ad afferrare la pace e la felicità. Con un linguaggio misurato e lineare, arricchito da metafore, rime, assonanze, metonimie, similitudini, allitterazioni e enjambement, il poeta delinea l’ansia e il tormento della propria esistenza. (Nunzia Piccinni) [1] dialetto di Castelvecchio Subequo (L’Aquila)