GIULIA NOTARANGELO

nata a Bari, già docente di lettere. Frequenta da più di venti anni il cenacolo dei “Poeti della Vallisa” e collabora tuttora come redattore con l’omonima Rivista letteraria. Ha pubblicato: “La teca di cristallo”, “Come se il tempo”, “Quel che resta”, tutte con Tabula fati, Chieti; è presente nella recentissima antologia “La poesia delle donne in Puglia”, curata da Daniele Giancane.

(di Giulia Notarangelo)

 

Parole

Parole in piazza

stese come panni

ad asciugare

 

Parole in volo

come farfalle impavide

verso il sole

 

Parole sfida

in un cielo che appare

non sempre blu

 

Parole incaute

favole allo sbaraglio

come vele

 

Parole sfida

in un gioco crudele

di muscoli

 

Parole impotenti

reclamano invano

briciole di empatia

 

Parole senza senso

scritte senza pensare

a un poi

 

Parole comparse

Scrivere col silenzio

la propria vita

 

Parole senza peso

scivolano incaute

verso lo stagno

 

Parole mute

sorgenti dall’acqua

senza un perché

*

Words

 

Words in the square

hung out like cloths

to dry

 

Flying words

like fearless butterflies

sunward

 

Words-challenge

in a sky that appears

not always blue

 

Reckless words

fairy tales into the fray

like sails

 

Words-challenge

in a cruel game

of muscles

 

Powerless words

claim in vain

crumbs of empathy

 

Meaningless words

written without thinking

at a later

 

Extras words

Writing silently

each own life

 

Weightless words

slip carelessly

towards the pond

 

Mute words

arisen from water

without a why

 

Le parole, come strumento principe di comunicazione, sono allo ‘sbaraglio’, ‘impotenti’, senza senso. Così, diventate ‘mute’, non rimane che il tempo della tragica solitudine.

Versi che sottendono un grido esistenziale di inappartenenza alla vita che tutto travolge, in particolare i rapporti umani.

(Cosimo Rodia)

 

 

Wislawa Szymborska (1923-2012)

 

Tremarella

 

I poeti e gli scrittori.
Così infatti si dice.
Ma, se non scrittori, i poeti chi sono –

I poeti – la poesia, gli scrittori – la prosa.

Nella prosa può esserci tutto, anche poesia,
ma nella poesia deve esserci solo poesia –

In sintonia col manifesto che l’annuncia
con lo svolazzo liberty d’una P maiuscola,
iscritta nelle corde d’una lira alata,
dovrei, più che entrare, arrivare volando –

E non sarebbe meglio scalza,
che con queste scarpe da quattro soldi,
pesanti, scricchiolanti,
goffa sostituzione d’un angelo? –

Avessi almeno un vestito più lungo, più lieve,
e versi che escono così, dalla manica,
da festa, da parata, da grande occasione,
un dan don,
ab ba ba –

Ma là sul palco guata già un tavolino
da seduta spiritica, coi piedini dorati,
su cui fuma un piccolo candeliere –

Ne deduco che
dovrò legger al lume di candela
ciò che ho scritto a macchina
tac tac tac alla luce d’una lampadina –

Senza preoccuparmi in anticipo
se sia poesia
e quale poesia –

Se del genere in cui la prosa è malvista –
O del genere che è benvisto in prosa –

E qual è la differenza,
percepibile ormai solo nella penombra
sullo sfondo d’un sipario bordò
con frange viola?

 

Autoironia, autoreferenzialità in questa poesia della Szymbowska e  un interrogativo: ” Ma se non scrittori, i poeti chi sono-“ e un’affermazione: Nella prosa può esserci tutto, anche poesia, ma nella poesia dev’esserci solo poesia. È evidente il  dualismo poesia-prosa, prosa-poesia , così come risalta la magia della parola poetica.

La poetessa risponde a sé stessa  attraverso un susseguirsi di immagini che incalzano, fatte di  uno svolazzo liberty di una P maiuscola , di una lira alata,  e un “non sarebbe meglio scalza”,  piuttosto “che con  le scarpe da quattro soldi, pesanti, scricchiolanti, goffa sostituzione d’un angelo?” E magari con  “un vestito lungo,  più  lieve, e versi che escono così dalla manicada festa, da parata, da grande occasione…”

Emerge, accanto alla levità,  la  goffaggine  del poeta, o meglio della poetessa in questo caso,  (vedi Albatros di Baudelaire). E gli  interrogativi  si traducono in  immagini, sospese tra  sogno e realtà.

La POESIA  si materializza  su un  palco e un tavolino da seduta spiritica, coi piedini dorati, su cui fuma un piccolo candeliere a  legger a lume di candela ciò che è stato  scritto a macchina tac tac tac alla luce d’una lampadina-Senza preoccuparsi in anticipo /se sia poesia/ e quale poesia-/Se del genere in cui la prosa è malvista- O del genere che è benvisto in prosa. E un ultimo quesito:  “ E qual è la  differenza,/ percepibile ormai solo  nella penombra/sullo sfondo di un sipario bordò/con frange viola?

(Giulia Notarangelo)

 

 

Tre Passere

(di Giulia Notarangelo)

 

Aj vicule

tre passere

iocano a nascon

 

Ässaupre I mére

assunnete

i gabbiene

appriesse

i viende

fine

 

Pece

as córe

che rembombe

pe niente

 

 

Tre Passeri (1)

 Nel vicolo

tre passeri

giocano a nascondino

 

Sul mare

sonnacchioso

il gabbiano

segue

la brezza

sottile

 

Pace

al cuore

che sobbalza

per un nonnulla.

 

 

NUNZIA PICCINNI

Dottoressa in Lettere moderne e in Storia della Filosofia, è scrittrice, grafologa, critico letterario. Ha pubblicato: “La notte spezzata”, “Ieri e Oggi”, “Partecipando”, “Come acqua che scorre”.

Su Instagram ha creato il blog letterario: “VERSIDIVENTO”, in cui pubblica riflessioni e recensioni, collaborando con autori, case editrici e riviste di settore.

 

 

Dietro uno specchio

(di Nunzia Piccinni)

 

Ho sparso qua e là note di me,

della musica che ho dentro, dei miei alti e bassi,

delle mie stonature e dei miei giri di valzer.

Ho gettato a ripetizione sassi

piccoli e grandi per svegliare lo stagno

in cui nuotano i miei pensieri.

Ho riaperto i bauli impolverati

della mia memoria per trovare le chiavi

di segreti non ancora svelati.

Ho ascoltato il silenzio

di gente che andava via, per soffocare

la mia ombra che piange, urla e si dispera.

Ho tagliato acque scure e maledette

per riemergere dagli abissi dei miei peccati.

Ho sputato sangue e veleno per macchiare

di rosso e nero la mia cruda trasparenza.

Ho annusato il dolore degli altri

per sentire l’odore del mio tormento.

Ho graffiato sulle spalle del tuo rifiuto

per tracciare nuove strade dove correre e sudare.

Ho scritto parole di fuoco e versi di vento

per incendiare il mio corpo e far volare le mie ceneri.

 

*

Behind mirror  

 

I have scattered here and there notes of me,  

of the music that I have inside,  

of my ups and downs,  

of my false notes and of some of my flawless emotional journeys. 

I repeatedly threw small and large stones,  

to awaken the pond in which my thoughts swim. 

I reopened the dusty trunks of my memory,  

to find the keys to secrets not yet revealed. 

I listened to the silence of people leaving,  

to choke my shadow that cries, screams and despairs. 

I tread dark and cursed waters,  

to re-emerge from the abyss of my sins. 

I spat blood and poison,  

to stain my raw transparency with red and black. 

I smelt the pain of others,  

to smell my own torment. 

I scratched upon the burden of your refusal,  

to trace new paths where to run and sweat. 

I wrote fiery words and verses made of wind,  

to set my body on fire and make my ashes fly. 

 

Versi di rinascita dopo aver messo a fuoco l’abitare ‘abissi’ e ‘tormenti’. Direi un Io che si autodistrugge per rinascere, come le chimere, che è pure la condizione di riacquistare un nuovo habitus.

(Cosimo Rodia)

 

 

Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

 

Gabbiani

 

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,

ove trovino pace.

Io son come loro,

in perpetuo volo.

La vita la sfioro

com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

E come forse anch’essi amo la quiete,

la gran quiete marina,

ma il mio destino è vivere

balenando in burrasca.

 

Vincenzo Cardarelli fu uno dei protagonisti della nostra vita culturale nel periodo tra le due guerre, non solo per la sua produzione in poesia e prosa, ma anche per la battaglia letteraria che egli condusse in difesa di una misura classica dell’arte. Sulla sua poetica la critica si è divisa. C’è chi ha parlato di freddezza retorica, disimpegno politico e civile, staticità dello stile. E c’è chi invece ha visto nel poeta l’uomo “coi suoi umori, le sue ire, le sue avventure” (Sapegno).

In “Gabbiani”, intensamente autobiografica, di fronte a uno scenario marino, solcato da un irrequieto volo di gabbiani, il poeta si sorprende a ripensare alla propria vita. La lirica, con versi in prevalenza endecasillabi e settenari, testimonia la dolorosa condizione di chi non riesce ad afferrare la pace e la felicità. Con un linguaggio misurato e lineare, arricchito da metafore, rime, assonanze, metonimie, similitudini, allitterazioni e enjambement, il poeta delinea l’ansia e il tormento della propria esistenza.

(Nunzia Piccinni)

[1] dialetto di Castelvecchio Subequo (L’Aquila)

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