Dolce di sale di Antonella Caggiano, Costa edizioni, 2022
di Cosimo Rodia
La raccolta Dolce di sale di Antonella Caggiano già nel titolo ossimorico, contiene il senso delle cinquantaquattro liriche, divise in cinque sezioni, che sostanziano almeno due direttrici tematiche; in una troviamo le poesie che affrontano il tema del dolore, a sua volta distinto tra quello originato da un fallimento affettivo e l’altro derivante dalla perdita prematura di un familiare. La seconda direttrice contiene versi del ricominciare, quindi carichi di propositi, preghiere e speranze.
Da entrambi gli assi tematici emerge uno spirito indomito, capace di mettere ordine nei sentimenti e nel programmare una risposta di senso e di accettazione della vita.
I luoghi attraversati sono contingenti e identificabili solo grazie alla biografia dell’Autrice e il tempo è quello dettato dagli accadimenti dolorosi, plasmati in un racconto simbolico per distaccarsene, guardare a distanza e andare oltre.
Il tema della poesia è dolente, nella misura in cui ciò che accade non è quello che si attende; tragico è il rapporto tra sé e ciò che la vita preserva.
I dati autobiografici nella loro asciuttezza passano davanti agli occhi e sono pesati nella loro portata di dolore; un’operazione che ha il sapore di terapia, permettendo a quel dolore di essere sublimato in letterarietà e alle cicatrici di chiudersi.
Un inquieto attraversamento, dunque, degli spazi della propria esistenza, verso un altrove capace di contenere il vecchio (figli, educazione, famiglia d’origine) e il nuovo.
Una poesia che tende a demistificare le falsità interpersonali e ad avviare un viaggio catartico, messo in pratica con un’autoanalisi, chiarendo la lama tagliente delle avversità.
Dopo l’eden perduto, però, c’è posto per la speranza, per gli affetti più vivi e per l’incontro con gli altri.
Così le poesie raccontano questo viaggio non voluto dall’Autrice, in cui le strade accidentate non la fermano, anzi la caricano di lirica motivazione. E nello scorrere del tempo, in cui necessariamente bisogna andare, Caggiano rivendica una soggettività forte nell’aprirsi varchi di vita: “Non permettere a nessuno/di rendere il tuo cuore/un luogo disabitato”; più che un grido di genere, è un grido umano del ricominciare attraverso l’amore, nonostante tutto, e gli affetti cari: “Non ho paura di invecchiare/ma della voce rotta di mia madre/ della conchiglia sgomenta senza più/il ricordo della sua musica”.
Dove risiede la possibilità concreta del ricominciare? Partendo dalle piccole cose, per le quali l’Autrice scrive un inno: “A volte è tempo/la sorpresa di un sorriso/che accende la tua strada”. Inoltre, compone un decalogo, in “Consegna al mondo”, per diluire il dolore, scivolando nelle gioie altrui.
In “Partire” la visione della vita è di fiducia: “Accoglierti/nonostante tutto”, quindi bisogna acquisire leggerezza (cfr. “Piume”), o immergersi nella bellezza della natura, condizione per amare la vita: “Il mare/intero/nel mio bicchiere” (con ascendenze caproniane).
La carica della rinascita certamente proviene dalla responsabilità imposta dall’amore per i figli, che come “sole d’agosto… ogni cosa avvampa” (lessema di ascendenza dantesca); sentimento espresso anche in “Nascita”. In questo percorso di rifioritura, abbondano le invocazioni e tra le più struggenti troviamo “Dammi”, una preghiera laica in cui Caggiano spera che Dio cacci i mercanti dal tempio.
La presa di coscienza dello struggimento porta a dire che “Non griderò/più/quel grido disumano”; e lascia basiti la trasformazione della crisalide in farfalla, perché molto spesso il mondo esterno è sordo e distratto; così nella piena consapevolezza, l’Autrice s’impone che “Non è più tempo di indugiare” (“Alzati donna”).
In questo viaggio, le guide affettive sono i familiari e la memoria dolcissima di un fratello scomparso prematuramente: “Sei vento/che da terra soffia”; oppure più avanti: “La tua presenza/è piena/intorno al camino/fiorito/delle parole soffuse/di mamma e papà”.
Cristallizzare il dolore e renderlo in forma letteraria significa dargli corpo e consegnarlo al lettore perché ne tragga giovamento, riconnettendosi contestualmente col senso della vita (di fronte al tragico, ogni scontro si ridimensiona e perde pregnanza).
Sono versi terapia che promanano con evidenza dal carcere dei sentimenti e dall’abisso dei desideri frustrati, che non sono mai rinnegati, ma anestetizzati in una quotidiana tenerezza per i figli e nel ricordo del fratello amato.
Da un punto di vista formale, il linguaggio usato dalla Caggiano è colto, con l’uso di tutto l’armamentario della poesia lirica: gli enjambements, gli ossimori, le similitudini, le metafore assolute (“Sguardo di pece”; “Il mare/intero/nel mio bicchiere”), le sinestesie (“bagnarci di parole”; “occhi per abbracciarlo”), i denominali (“incielarsi”, “fiorarlo”), gli a capo, gli spazi bianchi, la spezzatura tra i connettivi e i sostantivi, la punteggiatura usata in maniera emotiva, l’uso di parole basiche e concrete…, mostrano come l’Autrice risenta di una forte memoria letteraria, che padroneggia in maniera sapiente e personalissima.
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