Catumerèa di Leo Luceri, Musicaos, 2022
di Cosimo Rodia
Due sono le direttrici battute da Luceri nel suo Catumerèa; nell’una affronta il tema di una civiltà perduta e del Salento trasformato in una bomboniera da cristalliera, per ragioni turistiche, quindi a beneficio dell’industria vacanziera; nella seconda, troviamo il viaggio, costitutivo della biografia dell’Autore, che gli permette di stringere mani, conoscere ambienti, strade, amici, amori, paesi; esperienze avvolte, comunque, in un velo di malinconia.
Il libro è diviso in sezioni, ognuna delle quali è attraversata da un plurilinguismo accattivante, con la predominanza del grico.
La sezione più potente, per la resa lirica, è certamente la prima: “A sud delle foglie d’acanto”, in cui proprio la prima poesia, divisa in 4 momenti, presenta un Sud caratterizzato da staticità, attese, dalla calura che scioglie anche le parole: “A sud del sud/i meriggi…/ non finiscono mai/appesi ad orologi/nel sottoscala della mente/imploriamo il tempo…”. Ancora: “A sud del sud/il mare è d’albe e di tramonti/cos’altro concede questa pianura?/…/mentre naufraghi i giorni/è il fazzoletto annodato/a ricordarti che la vita non è questa”.
Dopo questa premessa, però, Luceri compie uno scatto in avanti e si accorge che “A sud del sud/la storia inventata/fintamente conosciuta/di questa terra incognita/illusoria penisola/non ha più non ancora/giorni memorabili/in assenza di turchi/né sole né mare né vento/dal vizio dell’apparenza/ridotti a parole in svendita”.
Troviamo, in buona sostanza, proprio nell’attacco del volume l’ubi consistam di Luceri, che dopo aver girato il mondo, senza disperdere la malia del ritorno (come Ulisse), torna al suo paese e non lo riconosce più, nel senso che è scomparso quello che si è portato per quasi mezzo secolo nel cuore. Ha trovato un Salento venduto alla giostra vacanziera e a beneficio del consumismo. In questo cammino di svelamento del vero, Luceri registra il disorientamento, usando le ascendenze bodiniane, per quanto per Luceri il ritorno nella sua Martano, non è un ritorno “agli inferi” (come per il suo maestro d’elezione, benchè anche il famoso Vittorio da emigrante “Rivoleva gli anni passati”).
Per Oreste Macrì, Bodini “Odiava Lecce ma di un odio gelosissimo, filiale, esclusivo”. Luceri accusa la frustrazione di fronte alla maschera della sua terra, ma per amore la ripropone con affetto in forma mitica.
Luceri risente l’influenza del grande poeta pugliese, specialmente nell’uso di alcuni sintagmi elementari: “Sottoscala, “mare, “terrazza”, “paese”, “viaggio”; oppure, nella sovrapposizione semantica del paese spagnolo con quello del salentino; o, ancora, nella considerazione della vita come cabala; infine, nella visione del Salento come superstite, inerte, morto. Ma Luceri ama la sua terra e la guarda da innamorato, e gli innamorati sanno perdonare.
C’è dolcezza nel suo sguardo; il suo Salento l’ha proiettato nei luoghi dove si stabiliva per lavoro (da Cuba, all’Ecuador, dalla Spagna alla Germania…). Poi si accorge che i suoi luoghi dell’anima non esistono più; le vie, i mestieri, i lavori, le colture, i monasteri… sono diventati location di spots pubblicitari, monili, spettacolo per il turista, quindi senza più anima, una realtà smemorata, così scrive: “Il plateale dell’anima/ha preso il sopravvento/ti lascia emozioni scolpite/messe al sole in bella vista/e mancanze più profonde…”; ecco cosa strugge Luceri; e la polverizzazione del passato è riproposta in “Catumerèa”, la via industriosa del suo paese, i cui vecchi protagonisti sono tutti morti.
Via Catumerèa, il poeta l’ha portata e la continuerà a portare nel cuore. Com’anche in “Verso Casale”, richiamando il monastero dei basiliani e i loro munifici frati, il poeta si affretta, con la tecnica dell’apostrofe, a non far sapere ai frati che tutto è andato distrutto, sicchè sussurra una bugia: “i libri son salviti”. E del trapasso non rimangono che voci.
E la critica alla trasformazione dei luoghi, Luceri la riprende in più poesie con la consapevolezza che il passato risiede in ricordi nostalgici: “Ora vago meschino/…/tra rovine d’acquapark/e parcheggi sterrati/lidi d’esotico lignaggio…”. Più avanti sancisce: “È finzione/è solo finzione/il nostro pregio barocco”.
Un grido appassionato per un sentimento svenduto e per un territorio vandalizzato. Quindi il ritorno di Luceri è malinconico, ma con la certezza di rimanere, per essere l’alfiere solitario di ciò che è serbato in seno.
La seconda direttrice è il viaggio, dove abbondano i luoghi, le amicizie, le mani tese, gli amori. E qui il timbro poetico non cambia e si alternano poesie dolcissime e nostalgiche: “ma te ne andrai/lo so/scegli tu il momento”.
In “Perché il possibile non fu” Luceri analizza con un velo di mestizia le ragioni del perché le cose non accadono così come sono prefigurate nella mente, con l’accettazione, alla fine, da salentino verace, del destino che spariglia le carte a suo piacimento.
In “Molte cose ho vissuto” troviamo una bellissima sovrapposizione di cosa è stato, di cosa sarebbe stato bello, di ciò che è, con la chiusa: “Resistono/i gesti perduti”; in “Vel’a domov” Luceri chiude con due versi emblematici: “Ed io sono ancora di là/e sono già qui”; allora, sorge il dubbio che il viaggio, pur costitutivo dell’uomo, rischia di essere una trappola esistenziale; ogni legame affettivo intrecciato lungo il percorso contiene l’essenza dello strappo; le mani strette o gli amori consumati, sono di per sé provvisori perché il viaggio è continuo e impone di recidere i legami, che a loro volta rimangono nella memoria come una possibilità che sarebbe potuta essere ma non è stata, creando un disagio dell’anima.
Il poeta scrive più avanti: “La tua voce/lasciami almeno la tua voce/come urna votiva”; ecco, rimane una preghiera, nella solitudine.
Tra le altre sezioni, la “Calle del Limòn” contiene le dediche, da cui si evincono sia i diversi luoghi abitati dallo scrittore, sia le tante amiche conosciute; “Vorrei chiederti” è dedicata a Vittorio Bodini, e Luceri ripropone la scrittura con apostrofe, ovvero come se il grande poeta e traduttore stesse ad ascoltarlo, così pone domande retoriche sui luoghi, sulle donne, sulle abitudini, su Madrid, sul Salento. Nella seconda parte della lirica critica il cambiamento del sud sud, che neanche Bodini riconoscerebbe: “Che nome daresti alle tue poesie/ora che il tabacco è sparito?”; così rivolgendosi al suo immaginario ascoltatore dice che alla “terra del barocco mancano le tue parole”.
La conclusione semantica della silloge potrebbe sintetizzarsi nei versi: “Tacciono le case/nei nostri tristi paesi”; incombe il silenzio per la perdita d’identità, custodita gelosamente, senza abiure.
La poesia di Luceri non lascia spazio al non detto; e da entrambi le direttrici emerge il tema nucleare, ovvero che il tempo, sia quello storico, sia quello biologico, si cristallizza nel trapasso dei giorni e delle stagioni; e di fronte a questo passaggio cieco, non rimane che fermare quel tempo della memoria, in una dimensione mitica, in un archetipo, capace di regalare ancora echi, per chi voglia ascoltare l’antica voce delle nostre radici.
A sud del sudA sud del sudi meriggi in sostateatri dell’esistenzanon finiscono maiappesi ad orologinel sottoscala della menteimploriamo il tempoimmaginiamo ricordidi vite di passaggionostalgie prese in prestitoda futuri altrui.
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