Miracoli del giorno di Paolo Polvani, Macabor, 2023.
di Maria Pia Latorre
Quando ho avuto tra le mani “Miracoli del giorno”, ultima fatica letteraria di Paolo Polvani, ho cominciato a congetturare su quali miracoli l’Autore si sia imbattuto (perché di questi tempi i miracoli scarseggiano) o a quali miracoli egli, in particolare, si riferisca.
Certo è che il miracolo, in qualsiasi modo lo intendiamo, reca in sé un dono, una sorpresa prorompente che travalica l’evidenza dei fatti che accadono, spesso ingabbiati in schemi rigidamente logici, che poco spazio lasciano all’irrazionale.
Centinaia di correnti di pensatori razionalisti non hanno mai creduto e anche oggi non credono ai miracoli e sono soliti liquidare i fatti straordinari e incomprensibili come eventi semplicemente non ancora dimostrati poiché non se ne conoscono, ad oggi, le leggi ad essi sottese.
C’è, dunque, una realtà piana, semplice, perfettamente rispondente alle categorie di causa-effetto, e poi ci sono i fatti inspiegabili. Dal senso del magico di un tuono negli albori dell’umanità alle scie chimiche in atmosfera, di acqua ne è passata sotto i ponti, ma l’uomo resta da sempre affascinato dal magico.
Di che miracoli, dunque, Paolo ci parla? E come pensa di catturare tramite essi l’attenzione del lettore? Certamente si tratterà di miracoli poetici, ipotizzo.
Invece no. Apro “Miracoli del giorno” e vi trovo San Giuseppe da Copertino, Sant’Eupremio, Santa Ildegarda, cioè una ricca agiografia inaspettata che immediatamente incuriosisce il lettore.
Qual è il primo miracolo che Paolo ci racconta? La morte di uno dei tanti Abdelaziz (chissà quale tra i tanti), forse proprio quel Mostafa Abdelaziz morto di freddo, a Bolzano, lo scorso inverno, con i termometri che segnavano meno sette. Mostafa aveva 19 anni e tanti progetti, ed era appena arrivato dall’Egitto; gli hanno messo in mano una coperta e lo hanno mandato via quella notte, perché non c’erano più posti disponibili al chiuso, così hanno dichiarato quelli della struttura d’accoglienza. Me la ricordo bene questa storia, troppo breve per lasciare traccia, davvero troppo breve. Ma torno a pensarci, di tanto in tanto…
Il secondo miracolo è la morte di un muratore caduto dall’impalcatura: “l’aveva cucito sulla pelle il nome, custodito nella tasca/ posteriore dei pantaloni. Non è dato sapere se ne indossasse/ uno di tipo vetero proletario, per esempio Gaetano/ oppure conforme all’era nuova, Ahmed,/ o Kevin”. Anche qui, come per il primo miracolo di San Giuseppe da Copertino, interviene Sant’Eupremio: “gli basta una/ sola mano/ e il muratore rimane immobile nell’aria”. Sembra di rivedere alcune toccanti scene del film “Io capitano”, in cui Matteo Garrone ha immaginato lo stesso fiabesco volo ultraterreno dei migranti sopraffatti nel deserto da fame e stenti, un volo che il protagonista si costruisce salvifico per evadere quella realtà di troppo insopportabile dolore. E così via, continua la narrazione di Paolo col ritmo di una Mille e una notte.
Così l’ho letto tutto d’un fiato “Miracoli del giorno”, perché si fa leggere tutto d’un fiato. Sì, l’ho divorato come un romanzo avvincente, l’ho immaginato come un film e credo che, trattandosi di una silloge, tutto ciò sia straordinario. Nei versi sono presenti dati di realismo descrittivo trattati con grande sapienza e rielaborati in avvincenti trame artistiche (e qui si tratta di un’arte che travalica il sé soggettivo per dirigersi verso un “altro-oltre”).
Nella prima sezione scorrono carrellate di storie dolorose quanto terribilmente dure e reali, storie che certamente non sono sfuggite all’occhio attento e sensibile del nostro poeta, dal militante passato sessantottino.
Il volume ci offre successivamente un’altra corposa sezione, “Quanto sole ci vuole”, oltre la prima che dà il titolo alla silloge, costruita per asciugare tutto il dolore incontrato, intendo io pensando di interpretare l’idea di Paolo.
Durante la lettura della silloge ho immediatamente riconosciuto alcune poesie amiche come “Vecchie carte”, già da me apprezzata in passato in un concorso letterario.
Naturalezza e fluidità sono qualità che solo i grandi artisti posseggono, riuscendo a nascondere dietro l’opera finita tutto il lavoro di asciugatura e lima; e qui credo che la naturalezza nasca da un puro sentimento d’amore, l’amore di Paolo verso la vita e che affondi le radici, implicitamente o esplicitamente, nei percorsi di poeti come Villon, Rebora, Guidacci, Pasolini, De Andrè, e Bello.
Mi sovvengono alla mente i versi di uno dei canonici sonetti di Jacopo da Lentini, tra i più begl’ inni d’amore mai composti, che recita: “Amore è uno desio che ven da’ core / per abondanza di gran piacimento;/ e li occhi in prima generan l’amore/ e lo core li dà nutricamento”.
Naturalmente, sin dalla prima lettura, ho accarezzato con amore le mie poesie preferite, come “Marzo si lucida le scarpe”, “Novembre “, “Il pullman della Marino”, per citare qualche titolo, poiché a riguardarle e rileggerle sono tutte di uguale luminosa bellezza e asciutta intensità.
In particolare ho trovato eccezionale tutta la sezione dei miracoli, dove giganteggia la strutturata ironia polvaniana, in particolare nel miracolo dell’angelo del Signore, che attacca certa gerarchia ecclesiastica bigotta e fuorviata. Dunque in tutte le trame poetiche il miracolo si compie non ad opera del santo di turno, ma grazie allo sguardo poetico che si posa come neve d’alba sulle brutture e sulle ingiustizie del mondo.
Di Paolo Polvani, in passato ho scritto che per riuscire in versi così robusti è necessario saper scrutare l’oggetto poetico da tutte le possibili prospettive e poi riuscire a compiere un salto metafisico per immaginarne altre prospettive inedite. Continuo a credere che questa sia la cifra del bravo poeta barlettano.
Perdendomi nel viaggio di “Miracoli del giorno” mi viene da riflettere sul fatto che, per fortuna, l’anima, in fondo, non ha bisogno di molto; le bastano poche essenziali cose di cui, a ben guardare, si potrebbe anche fare a meno. Tranne che l’arte e l’amore. Andy Warhol, molto acutamente, ha affermato che “l’artista è uno che produce cose di cui la gente non ha bisogno, ma che lui -per qualche ragione- pensa sia una buona idea dare”, se a questo ci aggiungiamo l’amore, quello totale, quello per la vita di tutti gli esseri viventi e del creato, allora siamo davanti ad un vero miracolo.
Riporto qui, a titolo esemplificativo, la composizione “Il pullman della Marino”.
Il fascio dei fari interroga la notte, la vellica, la indaga,
aderisce al senso della strada, carico di freddo e di valigie si concentra
sul mistero del buio, sul concerto di note del motore ed ogni
passeggero è condannato a restare un punto di domanda,
un pozzo per sempre di supposizioni: chi è quello che dorme
con la bocca spalancata e un respiro che nulla svela dei segni,
di quelle visioni che anticipano il sonno, chi è? cosa domanda
al mondo, cosa si cela nelle sue tasche, di cosa parla
nello srotolarsi dei giorni, ha figli, ha soldi in banca, cosa guarda
della televisione, e dove va, in che direzione, in quale abisso di vuoto
non sa di sprofondare? un pubblico di poveri, di anziani
che ritrovano i figli ghermiti dalla lontananza, ci sono
gli extracomunitari con lo sguardo che si ciba d’attesa, le nonne con le foto
dei bambini che scorrono sui cellulari, e il vento della precarietà
che tutti ci accompagna e ognuno è prigioniero dell’enigma,
chi addenta il panino con la mortadella e chi discorre al telefono
con la voce tutta regionale, la sonora appartenenza a un accento,
a un gergo di paese. I pullman della Marino custodiscono dentro
questi misteri, lo spavento di facce, l’incertezza degli occhi, tutti
disperatamente soli, e la notte li veste, li attanaglia, li veglia,
li prende per mano e li consegna al vano inseguimento di una felicità.
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