Se la preghiera, la letterina, il desiderio
espresso così, più che altro per gioco
venisse preso sul serio? Se il regno della fiaba e del mistero
si avverasse? Se accanto al fuoco
al mattino si trovassero i doni,
la bambola, il revolver, il treno,
il micio, l’orsacchiotto, il leone
che nessuno di voi ha comperati? Se la vostra bella sicurezza
nella scienza e nella dea ragione
andasse a carte quarantotto?
Con imperdonabile leggerezza
forse troppo ci siamo fidati. E se sul serio venisse?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore cammina piano
nell’attraversare il salotto. Guai se tu svegli i ragazzi
che disastro sarebbe per noi così colti così intelligenti
brevettati miscredenti
noi che ci crediamo chissà cosa
coi nostri atomi coi nostri razzi.
Fa’ piano, Bambino, se puoi.» Questi versi significativi dedicati al Natale, dolci e dolenti nella loro rampogna, sono tratti da un poemetto intitolato “Che scherzo!”, che Dino Buzzati, tra i maggiori autori del nostro Novecento, scrisse nel 1964. Lo scrittore bellunese aveva a cuore una dimensione dell’esistenza che noi di solito trascuriamo, presi nel vortice degli affari, del lavoro, dei commerci, delle mille cure quotidiane: quella della fiaba e del mistero del vivere, che ancora (e forse stancamente) pare risuonare nelle letterine di Natale dei bambini. Siamo davvero felici nel mondo che ci siamo creati? Ecco la vera domanda sottintesa in questi versi. Siamo sinceramente soddisfatti della vita che conduciamo giorno per giorno senza grandi ideali, senza tensione creativa, senza porci domande sul senso della nostra vita? Non ci siamo forse troppo fidati del progresso tecnologico, dell’economia, della scienza, della ragione calcolante? E l’inquinamento del pianeta, il consumo forsennato di suolo, le guerre, le crescenti masse di diseredati non mandano «a carte e quarantotto» la nostra «bella sicurezza nella scienza e nella dea ragione»? Chi restituirà ai bambini che subiscono guerre e devastazioni ambientali il sorriso? Nemmeno Gesù Bambino pare scuoterci dalle nostre illusioni, dalle nostre false certezze, dalla nostra umana prosopopea: «così colti così intelligenti brevettati miscredenti noi che ci crediamo chissà cosa coi nostri atomi coi nostri razzi». E il poeta allora, forse indotto da un sottile sentimento di pietà, lo prega di muoversi piano nell’attraversare il salotto, perché, se ci svegliassimo, metterebbe a nudo la nostra imperdonabile miseria.