«Il Vittorioso» era un giornale con prevalenza di storie a fumetti, che noi chiamavamo pomposamente “cineromanzi”, in libera vendita sia nelle edicole sia nelle parrocchie che lo richiedevano. Nel 1937, alla sua fondazione, l’assistente dell’A.C. che affiancava la Presidenza, lo aveva annunciato come «un giornale senza prediche». Senza prediche sì, ma capace di spezzare il pregiudizio che esisteva ancora contro i fumetti. Senza prediche ma capace di spezzare il pregiudizio che esisteva ancora contro i fumetti, perché da un’organizzazione che era stimata severa, osservante, ecc. usciva fuori l’approvazione di questo nuovo linguaggio. Pensare che il fumetto fu difeso persino da Rodari contro la dirigenza del partito comunista, che anch’essa non vedeva di buon occhio questo mezzo di espressione, accusato di divulgare l’ideologia capitalistica americana, di non giovare alla fantasia (invece poi si riconobbe che la fantasia del lettore è obbligata a riempire lo spazio tra una vignetta e l’altra), di utilizzare un linguaggio barbaro (invece poi si dimostrò che ogni 20 parole il bambino conosceva almeno una parola nuova). Il motto che contrassegnava il «Vittorioso» era: «forte, lieto, leale, generoso», che sottendeva un programma educativo, però non era un programma legato a una professione religiosa. Le quattro virtù umane valevano per tutti, e lasciavano liberi tutti gli spazi dell’avventuroso. Quando arrivai in redazione trovai alcuni grandi autori/disegnatori: autentici pilastri, sui quali mi ressi, imparando il mestiere e al tempo stesso continuando la ricerca dei collaboratori migliori: nei disegni, nella narrativa, nel giornalismo e nelle rubriche.
Caesar, mago della tecnica, per il quale inventai gli spettacolari “paginoni” a tempera; Caprioli, poeta dei mari del Sud e dei racconti storici con la caratteristica ombreggiatura “a puntini”; Craveri, popolarissimo come autore di un “bestiario” di bonari animali antropomorfizzati dall’aria paesana, lontanissimi dallo stile disneyano).
C’era un giovane già celeberrimo umorista, Benito Jacovitti, che – ben nascosto durante la guerra – era esploso con storie subito pubblicate sul settimanale e poi su “Albi Giganti” a colori. Diedi spazio ai suoi tre personaggi: Pippo, Pertica e Palla, che divennero una personificazione del giornaletto e della stessa vita dei preadolescenti (sulle pareti delle scuole e delle sedi associative non mancavano mai le loro libere riproduzioni a colori), che così si staccava nettamente dalle pubblicazioni paludate del tempo. Il suo era un disegno senza prospettiva, surrealista, con lische di pesce e salami disseminati anche sotto le rotaie dei tram, con grandi innovazioni grafiche e narrative, ma con mio stupore i tradizionalisti non brontolarono più di tanto.
A queste eccellenze si unì progressivamente un gruppo di artisti che realizzavano soggetti e sceneggiature d’autore. Erano miei coetanei, e si formò una “banda” creativa che si riuniva in pizzeria, combinava storici scherzi e zingarate.
Sono tenuto a farne una rapida rassegna perché con altri che scoprii e valorizzai, furono l’espressione di una “scuola italiana del fumetto” con sviluppi futuri. Tutti continuarono poi a collaborare a «Il Giornalino» e ad altri periodici o case editrici:
– Gianni De Luca che, tra architetture mirabili, documentazione storica e grande abilità nel disegnare i ragazzi, passò dai Vichinghi agli Etruschi, dai drammi del nostro dopoguerra alla fantascienza. Su «Il Giornalino», illustrò tre tragedie di Shakespeare e creò il modernissimo Commissario Spada. Gli va riconosciuto il merito di avere innovativamente riformato il fumetto, rompendo lo schema americaneggiante delle stripes attraverso il libero uso dello spazio pagina.
– Ruggero Giovannini, il più “americano”, ammiratore di Milton Caniff e dei generi poliziesco e western, ma capace di reggere in prima pagina due miei soggetti, uno sull’eroismo dei Veneziani contro i Turchi, l’altro contro i progetti di revanche di un gruppo di nazisti rifugiati in Africa.
– Lino Landolfi, appena agli inizi: umorista dal tratto deciso e ondeggiante, sbocciò poi con il personaggio di Procopio, che divenne il personaggio fisso fino al 1966.
– Renato Polese, disegnatore per tutti i generi, preciso ma caldo e coinvolgente. Lo ripescai appena vidi un suo vecchio albo. Mieté successi anche su «Il Giornalino» fino al passaggio del millennio.
– Nevio Zeccara che da Genova si trasferì a Roma per stare vicino a quella particolare redazione. Appassionato di fantascienza, passava dai cineromanzi di lungo corso (come i miei SOS dallo spazio e L’ultimo gelo) a spettacolari “paginoni” di tipo caesariano.
– Carlo Peroni, umorista veloce e quindi spontaneo che, non trovando posto sul giornalino, potei utilizzare solo sulle catene di albi che accompagnavano il settimanale.
Per ragioni di spazio e di memoria, riesco solo a citare qualche altra firma illustre: anzitutto Battaglia, Bellaviris e Tarquinio, poi Sciotti, Ferrari, Boscarato, Tosi, De Amici, Sorgini… Altrettanta attenzione era riservata ai giornalisti: Natale Bertocco, Enzo Balboni, Remo Pascucci, PaoloValenti, Enrico Ameri, Goffredo Silvestri, tutti assi nel loro genere. Per me, il settimanale non doveva essere solo “per” ragazzi, ma “dei” ragazzi, quindi doveva sviluppare interessi e abilità, ed ecco varie rubriche, ad es. filatelia, giochi, concorsi a premio, aeromodellismo, costruzioni, teatro. E ben tre intere pagine furono consegnate ai lettori perché le riempissero con loro materiali. Oltre alle lettere in redazione, ebbero un successo enorme il Convegno dell’Allegria, composto da barzellette e vignette, commentato da un formidabile umorista, Vittorio De Angelis, scrittore anche di scenette con personaggi comici, che non ho mai capito come non arrivarono alla RaiTV; l’altra pagina di successo s’intitolò Microvitt: curata da Renata Gelardini, pubblicava poesiole, raccontini brevi, disegni che piovvero da tutta l’Italia. Una dovuta parentesi: come conseguenza di questa impostazione, 25 anni dopo la chiusura del «Vitt», nacque con mia grande sorpresa l’associazione: «Amici del Vittorioso», che è ancora attiva; creata da quei “collaboratori” giovanissimi che avevano visto pubblicare sulle pagine del giornalino i loro piccoli contributi e che in tal modo manifestavano il loro attaccamento affettivo a un compagno dei loro anni verdi. Naturalmente, il giornalino non pubblicava solo fumetti e servizi, ma anche racconti, novelle e romanzi. Tra i novellieri (c’era un racconto ad ogni numero per non tralasciare l’educazione alla lettura) mi assicurai le collaborazioni di Piero Bargellini, Giuseppe Fanciulli, Olga Visentini, Luciana Martini, Alberto Manzi, Sandro Cassone, e non posso nominare tutti. Con Manzi eravamo stati compagni di scuola, poi ci eravamo perduti di vista. Ci ritrovammo nel 1951 a Milano, in tempi in cui si riusciva ancora a tenere un congresso sulla letteratura giovanile nell’aula del Palazzo di Giustizia: io mi battevo in difesa del “linguaggio fumetto” e contro gli albi violenti, lui era lì per ricevere un premio per il romanzo Grog. Storia di un castoro. Lo arruolai subito al «Vittorioso» sia come autore di una rubrica, sia come novelliere, sia come esperto naturalista per una rubrica ecologica in anticipo sui tempi. Confesso che il suo viaggio in Amazzonia per una ricerca fu una splendida occasione per barare al gioco della concorrenza annunciando che avevamo un “inviato speciale” nel Sudamerica (ci mandò una serie di articoli). In realtà non era vero, perché c’era andato per incarico del Ministero. Sessanta o novanta anni di letteratura giovanile Mi viene chiesto di riferire sugli ultimi 75 anni di LG. Mi pare che l’ultimo saggio di Angelo Nobile abbia detto tutto e bene: evoluzione, tendenze, e una gigantesca rassegna di titoli e di autori. Mi limiterò quindi a esporre alcune mie personali esperienze e osservazioni.
All’età di quattro anni ho imparato a leggere. Ero di famiglia molto povera; da amici dei miei genitori ricevetti un dono che mi parve meraviglioso: un sillabario per ricchi, pagine ampie tutte illustrate ad hoc, alcune interamente a colori (cosa rara, in quel tempo), copertina lussuosa. Domandando a mamma che significava quel segno o l’altro imparai a leggere (senza i sussidi del Metodo Doman, di là da venire, ma in qualche modo anticipandolo e validandolo). Attestai anche l’influenza delle letture perché decisi che io ero uno dei simpatici personaggi e ne assunsi il nome: ancora oggi, per i miei nipoti, io sono “Nonno Ninni”.
La gente si meravigliava che, così piccolo, leggessi ad alta voce le insegne dei negozi (che, tra l’altro, avevano grafie diverse). E mi offesi quando, a 5 anni e mezzo, andai all’asilo con il libro di Pinocchio sotto il braccio e la maestra mi accolse domandandomi: «Che fai con quel libro? Guardi le figure?». Io, mannaggia, l’avevo letto tutto!
Arrivo agli anni Trenta come lettore giovanissimo. Nelle scuole elementari del ventennio bisognava adattarsi a leggere il libro di testo Il Balilla Vittorio, testo unico per tutti, e il giornalino «Il Balilla». Interessanti, pur se spesso gonfie di retorica, le biografie dei grandi Italiani in ogni settore.
Io mi rifugiai prima nel mondo universale delle fiabe (scoprii Andersen), poi nei romanzi di Salgari, molto in voga (e gradito al regime perché anti-inglese), mi divertii sulle satire che ne fece un autore ingiustamente dimenticato, Yambo, e … studiai la geografia sulle dispense de I tre Boy Scouts, ancora reperibili sulle bancarelle. Scoprii la molto varia ed economica «Biblioteca dei ragazzi» di Salani, ma la meravigliosa collana «La Scala d’Oro» era troppo cara, tuttavia con un sistema di prestiti riuscii a leggerne una dozzina di volumi. Dopo la guerra, non furono molti i libri per ragazzi sulla Resistenza (successivamente abbonderanno). Perciò mi piace ricordare Piccole Fiamme Verdi di Enzo Petrini (1946) e il cineromanzo I ragazzi di Piazza Cinquecento, pubblicato in forma di fumetto sulla prima pagina del «Vittorioso» fin dal 1945. Entrambi sono spesso dimenticati o ignorati da studiosi e critici di letteratura giovanile, al pari dei successivi libri autobiografici di Lino Monchieri, in cui racconta della sua prigionia in Germania. Poi venne fondato «Il Pioniere» dal PCI con la coppia M. Argilli e G. Rodari, e la Resistenza entrò tra Chiodino e storie di ortaggi parlanti. Negli ultimi anni c’è stata una forte ripresa del tema dell’olocausto, sia per non dimenticare (e cito le opere di Lia Levi), sia forse per lavarsi la coscienza, almeno da parte degli editori. Per la produzione italiana degli ultimi 60 anni, mi richiamo al monumentale testo di Angelo Nobile e scarico alcune mie osservazioni e qualche interrogativo, limitandomi a presentare alcuni scrittori che per me sono stati i più grandi: Gianni Rodari assunse dal Dadaismo, da Sergio Tofano e dalle avanguardie, nonché da proprie esperienze didattiche, l’ispirazione per delineare una sua Grammatica della fantasia che ebbe grande successo. Elaborò una sua originale fiabistica (per allora, anticonvenzionale), e scrisse agili filastrocche (che invasero i testi scolastici) e racconti in prosa che affrontavano i temi sociali del mondo reale (il lavoro umano, la povertà, l’ingiustizia, l’antimilitarismo, le speranze di cambiamento…) . Mi piacerebbe esplorare come le sue prime opere apparvero prima nell’editoria dei Paesi dell’Est e poi rimbalzarono sui tavoli del Partito Comunista, che solo allora ne capì l’importanza. Rodari fu anche un buon giornalista, ma perché non disse mai – e pochi critici lo ricordano – che i suoi primi articoli erano stati pubblicati sui giornali dell’Azione Cattolica Lombarda?
Rossana Guarnieri è autrice di varie decine di romanzi, dal tenero al psicologismo alla dura realtà di Gente d’Irlanda. Dato che un editore, quando era una giovane speranzosa, le aveva imposto un contratto capestro, molti suoi romanzi sono firmati Laura Guidi. Mino Milani, grande narratore, è noto soprattutto per l’epopea western di Tommy River, ma è un narratore a tutto tondo, spaziando anche nei luoghi e nei tempi più vari. Gli fu affibbiato l’appellativo di “Salgari moderno”, quasi come lode per i suoi libri di avventura, ma non credo che abbia gradito molto. Milani tralascia i paludamenti e i paletuvieri salgariani, nel senso che non è pomposo né prolisso, narra con periodi scattanti, con naturalezza e chiarezza. Mino, mi aiuti a capire perché nel 2000 i ragazzi non cercano più questo genere, nonostante i film trasmessi in Tv e il recupero delle civiltà dei nativi d’America? Registro nell’odierna editoria per ragazzi due fenomeni. Il primo è la diffusione di “collane” di libri brevi, poco consistenti che hanno favorito la scoperta della piacevolezza della comunicazione scritta e dello sfogliare le pagine (spesso banali). Il motto dei cosiddetti progressisti: «Leggano qualunque cosa purché leggano» va preso con giusta cautela.
Della serie di Geronimo Stilton ho apprezzato la trovata delle “grafie emotive”, in cui le parole sono scritte in caratteri diversi secondo l’eco che suscitano nel lettore.
La collana «Piccoli Brividi» poteva essere innocua e persino utile in qualche numero, ma trasformandosi presto in lettura esclusiva e ossessiva mi ha lasciato molti dubbi. Bisognerebbe valutare le ragioni del successo di questo tipo di racconti e le conseguenze di una lettura esagerata del genere. Piacevole è stata la serie «Le Cipolline» di Garlando, mi è piaciuta perché da un’unica disciplina sportiva di squadra (pallacanestro) passa a problemi personali e sociali delle ragazze.
Grande apprezzamento per le storie di Valentina di Angelo Petrosino, verista quasi sempre delicato e capace di interpretare il mondo femminile. Dopo il successo di Tolkien e Il Signore degli Anelli, si tentò anche in Italia di adeguarsi ai romanzi fantasy, come libri di passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza e oltre, in una logica crossover, con l’opera di S. De Mari e di L. Troisi, poi c’è stato il fenomeno H. Potter, che ha tra i meriti quello di potenziare la fantasia e di essere riuscito a fare superare il tabù del libro lungo, e tra i demeriti il ricorso eccessivo alle arti magiche. Mi piacerebbe leggere delle tesi o dei saggi che viaggiassero in orizzontale, ad es. la visione della donna da Piccole donne a Giana Anguissola, ad Annamaria Ferretti, a Grazia Nidasio, ai fotoromanzi “rosa” ecc. fino a Marta quasi donna di Argilli e alla saga di Valentin di Petrosino. Oppure, “Le Isole”: L’isola del tesoro, L’isola misteriosa, Mompracem, L’isola che non c’è, L’isola del giorno dopo… e così via. L’avventura potrebbe essere vista da Salgari a Milani, ma bisognerebbe in parallelo considerare anche i fumetti: «Tex», «Zagor», ecc. Certo non è facile scrivere per ragazzi. Quando i più celebri autori per adulti furono invitati ufficialmente a farlo fu fiasco totale, salvo il grande Italo Calvino, con tre capolavori. Molti sforzi e inbiziative di promozione della lettura sono stati intrapresi negli ultimi decenni. Per un suo un rilancio occorre comunque rimediare in qualche modo a due errori, uno organizzativo e uno pedagogico. Il primo è stato il sabotaggio di un’ottima iniziativa che fu l’inserimento di un libro di narrativa tra i testi delle tre classi di scuola media inferiore. In particolare diverse editrici, che credevano nel valore della lettura nel tempo scolastico (La Scuola, Massimo, S.E.I., F.lli Fabbri, Mursia…, e molti autori (in gran parte di orientamento cattolico) s’impegnarono in opere di notevole valore. I soliti “innovatori” gettarono l’idea in politica e in argomenti pseudo pedagogici. Ad es. l’idea di un solo libro per tutti, capace di far vibrare di fremiti e di emozioni tutta una classe fu distrutta dal «perché un libro uguale per tutti e non un libro diverso per ciascuno?», impedendo una conquista collettiva. E la deformazione professionale della maggioranza degli insegnanti pretese i riassunti di quanto letto, l’inserimento di analisi ed esercizi, prima in fondo al volume e poi fra i capitoli, uccidendo così la voglia di leggere. Un Signor Libro che entrava a scuola per il piacere di leggere partecipato ne uscì come un noioso testo scolastico.
Il secondo errore di matrice pedagogica, ancora riscontrabile in molti saggi di letteratura giovanile, fu l’esaltazione dell’antipedagogismo che ancora non si capisce che cosa sia, dato che la LG è arbitrariamente divisa secondo due capostipiti, Pinocchio e Cuore. Il primo sarebbe il campione di un allegro antipedagogismo che non vuole insegnare niente valorizzando la lettura in base alla sua piacevolezza e non ai contenuti. E Cuore il contrario: viziato dagli intenti pedagogici.
Obietto che il libro di Collodi è un testo divertente ma è anche un racconto gotico con scene terrificanti ed è pieno di ammonizioni e castighi (andare a scuola, conservare i libri, non dire bugie, obbedire, non frequentare il mondo dei giocattoli, ecc.).
Se proprio si vuole distinguere, possiamo dire che quella di Pinocchio è una pedagogia nell’insieme divertente e che quella del padre di Enrico è una pedagogia pedante. Concludendo: questi 75 anni di scrittura per ragazzi hanno registrato un sensibile incremento dei libri per ragazzi in commercio, e specialmente degli albi illustrati per l’infanzia, e hanno visto emergere nuove tematiche, nuovi generi e nuove tendenze. Sul piano qualitativo la maggiore quantità di libri pubblicati si è accompagnata generalmente a un miglioramento sul piano grafico e delle illustrazioni. Ma sotto il profilo estetico-letterario e pedagogico molta di questa produzione editoriale non è priva di limiti, non sempre evidenziati dalla critica, ma puntualmente rilevati, accanto agli elementi di positività, dal testo di Nobile, che rimane un’opera fondamentale per una ricostruzione obiettiva e completa dell’evoluzione della scrittura per ragazzi nell’ultimo settantacinquennio.