Esemplare l’umano di Maria Pia Latorre e Franco Giacopino, Les flâneurs edizioni, 2023
di Sandro Marano
“Homo sum, humani nihil alienum puto” (“sono un uomo e nulla di umano ritengo mi sia estraneo”): il commediografo latino Terenzio in una sua commedia mette in bocca ad uno dei protagonisti queste parole divenute presto proverbiali per indicare il valore inestimabile dell’esperienza umana, di ciò che rende umano l’esserci dell’uomo. “Esemplare l’umano” (Les flâneurs edizioni 2023), il bel testo di Maria Pia Latorre e di Franco Giacopino, si muove su questo solco: trascrivere in versi e in foto quel che appartiene all’uomo, alla sua dignità e che oggi rischia di essergli sottratto in nome dell’aberrante meccanismo produzione-consumo.
Sbaglierebbe però chi volesse interpretare le istantanee di Giacopino come un mero commento alle trentasei composizioni liriche della Latorre. Si tratta di due forme d’arte autonome che come due rette parallele dialogano tra loro, rimandano l’una all’altra e, così facendo, ampliano ciascuna la significatività dell’altra.
Le prefazioni di Gianni Antonio Palumbo e di Raffaele Nigro forniscono una indispensabile chiave di lettura a questo volume in formato album assai curato graficamente. Attraverso i “mestieri”, attraverso determinate situazioni di vita, vengono via via messe a fuoco, dai versi e dalle foto insieme, emozioni, sogni, delusioni, tutta la ricca gamma dei sentimenti umani.
Esemplificando: agli Innamorati “fusi in un abbraccio verdeblu” col loro “mistero inquieto” fa pendant l’immagine luminosa della donna che legge una lettera d’amore in “Passione…pace”; alle conturbanti e delicate sensazioni erotiche della Femme érotique (“Entra nella mia / dimora / che ha pareti di / morbido glicine”) corrisponde la sensuale nudità d’una giovane di colore in “Pensiero…invisibile”; al dolore della Separata che rimpiange la sua “breve estate” e non crede più “alla perfezione dell’onda” si contrappone l’immagine di un uomo colto di spalle contro lo sfondo di una figura disegnata sul muro a braccia aperte in “Ritorno”; e così via.
C’è un dato che però subito emerge sfogliando il volume ed è, come mette bene in risalto Nigro, la caducità che accomuna tutte le creature, la consapevolezza della brevità della vita, al di là dei tanti mestieri e delle varie situazioni: “questo destino comune è della fioraia e della commessa, del soldato e della netturbina, della iettatrice e della maestra, del merciaio, o dell’impiegata, perché se variegato è il ruolo sociale, comune è la fine”. È la consapevolezza della caducità, dell’umana fragilità che fonda l’humanitas, è lo sguardo compassionevole verso l’altro, che in fondo è uno sguardo compassionevole verso se stessi, a farci apprezzare quel dono che è la vita. Emblematica in questo senso è la splendida foto d’apertura del volume, “Spazio aperto”, che rappresenta un cancello aperto avvolto dal buio incombente. E ci sovviene in proposito l’osservazione calzante del grande Cèline che nel “Viaggio al termine della notte” diceva che la vita è un po’ di luce che fiorisce nella notte.
Nei versi di Mariella la fioraia tutto questo è esemplificato in modo incisivo: la fioraia è una donna che “vive coi fiori / e ogni giorno di vento / sfoglia margherite / come attimi sfuggenti”, ma dentro di sé intuisce che “è un papavero / in un bicchiere d’acqua / il suo destino”. E nella corrispondente foto di Giacopino, “Interpretare donna”, che raffigura un nudo di donna a mani giunte con uno sguardo allusivo e fermo, si avverte il sottile richiamo della figura femminile intesa come un fiore, della sua bellezza che il tempo minaccia, del suo fascino che pare concentrarsi tutto nello sguardo.
In Ragazzo la poetessa si immedesima poi nelle difficoltà che le nuove generazioni tese ad “afferrare un futuro affannato” si trovano oggi ad affrontare ed emerge prepotentemente l’istanza ecologista: “vedo che senza una nuova rotta è certo lo schianto”. Non poteva mancare infine tra le tante figure quella del Poeta: “il poeta – scrive la Latorre con versi di grande forza evocativa – canta su un ramo / e sveglia il cielo”.
I versi della Latorre si muovono, come è stato autorevolmente osservato, tra neoermetismo e semplicità lirica, ed è in quest’ultima direzione che, a nostro avviso, la poetessa raggiunge i risultati più lusinghieri. “Chi tra noi saprà / abbracciarti più di me / oh cielo?”, scrive in Un pilota: pochi scarni versi che racchiudono l’aspirazione dell’uomo all’infinito, quell’infinito che sembra sfuggire all’umanità d’oggi chiusa tra strade e grattacieli, che a mala pena ritagliano ancora un po’ d’azzurro, come pare significare la foto “Raro e intenso” di Giacopino.
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