Exif_JPEG_420Marai, per cominciare
di Gemma Acri Guido
Anno nuovo, proposte in abbondanza. Come pioniere avevo scelto un testo antropologico sulla Befana, ma l’ho smarrito in viaggio prima ancora di leggerlo. Lo troveranno in qualche parte della Romania e si chiederanno perché un italiano si fosse portato dietro un libro sulla vecchia con la scopa, il mento aguzzo, il naso curvo e le scarpe tutte rotte.
La settimana prima, fortunatamente, ero stata “illuminata” dalla biblioteca “paterna”, da intendere non nell’accezione leopardiana ma, come sa chi mi legge dall’inizio, come la marea di libri con cui negli anni ho occupato la casa dei miei in Calabria. Ho pensato di consigliare, di tanto in tanto, non una singola opera ma un autore, uno di cui va affrontata l’intera bibliografia. Mi preparavo già all’impresa di sintetizzare Dostoevskij, ma mia sorella, grugnendo, mi ha fatto capire che vi avrei perso tutti.
Ad inaugurare il 2024 ecco, allora, Sandor Marai (1900-1989), scrittore e giornalista ungherese, appassionato di Kafka e misconosciuto come questi finché rimase in vita. Convinto oppositore del Fascismo e vittima dopo del muro di Berlino, emigrò prima in Svizzera poi in Italia (amò molto la Costiera amalfitana, avendolo Salerno adottato), infine prese la cittadinanza statunitense. Un’esistenza costellata di lutti, la sua, suggellata, dopo le esercitazioni al poligono di tiro, da un colpo di pistola autoinferto in California; andava per i novanta, ma non riuscì a sopravvivere alla scomparsa della seconda moglie.
“Uno felice come al solito”, starete pensando, “non meno pesante del vate russo!”. Scagli la prima pietra chi scova un’anima giuliva che ha composto Letteratura!
Marai è una penna della malinconia e dello scavo, di quell’introspezione che chi legge agogna pur rifuggendo. Il mio approccio con lui risale ai tempi dell’università, quando una coinquilina mi prestò “Le braci”, il capolavoro (uno dei cinque testi Adelphi più venduti di sempre). La ricordo come un’esperienza travolgente, di quelle che ti prendono per il bavero e ti spostano in un punto in cui le cose si vedono meglio o almeno diversamente. Quelle che, dopo vent’anni circa, ti tengono inchiodata qua ad analizzare il segno che ti han lasciato. Vado alla trama, senza divagare ulteriormente. Dopo quarantun anni e quarantatré giorni due uomini, che da giovani sono stati inseparabili, si rincontrano in un castello ai piedi dei Carpazi… [Proprio uno dei tanti da me visitati negli ultimi giorni: Vita e Letteratura sono inscindibili come Amore e cuore nobile nello Stilnovo!] Il musicista Konrad era scappato ai Tropici, il generale Henrik non si era mai mosso dalla sua proprietà. Entrambi avevano vissuto in attesa di questo momento. Nini, la fedele balia novantunenne, predispone il castello come l’ultima volta in cui si erano visti, quando era ancora in vita Krisztina, la moglie di Henrik… Perché conta anche l’istante – il tempo determina le cose a suo capriccio, e ad esso noi dobbiamo adeguare le nostre azioni. A volte il tempo ci offre una possibilità, legata appunto a un istante preciso, ma se ce lo lasciamo sfuggire non possiamo fare più nulla. Potrei inondarvi di citazioni, ma ogni frase di questo classico è un appoggio o un appiglio per la scalata verso il “duello senza spade” finale. Pubblicato nel 1942 con il titolo originale “Le candele bruciano fino in fondo”, incarna temi universali quali il tempo, l’attesa, la memoria, la guerra (la Seconda mondiale), la religione, l’amicizia, il tradimento, il desiderio, i segreti, la vendetta, il rancore, l’orgoglio, l’ossessione, le passioni umane. Verità spogliate dalle apparenze s’infiammano, pagina dopo pagina, e chiudono un cerchio dal quale nessuno può uscire indenne.
Se, però, Marai vi ha più incuriosito che spaventato, perseverate con “La donna giusta”, epico nelle descrizioni ambientali e storiche, feroce nel rammentare come l’amore talvolta non sia sufficiente per stare bene e insieme e come si sia condannati a non poter vivere senza affetti. Questa sorta di Bibbia per amanti si dipana attraverso quattro monologhi redatti tra Roma Budapest e New York, in un ampio arco temporale, da quattro persone che si sono amate e che hanno cambiato l’uno il destino dell’altra. L’intreccio potrà sembrare quello del famigerato triangolo amoroso solo per qualche secondo, poi sboccerà in un’educazione sentimentale a botta di confessioni che pretendono di essere ciascuna quella assoluta. Matrimoni, divorzi, possesso e istinti distruttivi. Conoscere è un atto sacro, vuol dire avvicinarsi all’ombra e se l’ombra è tua puoi farci quel che vuoi, pure precipitarci dentro; ma se l’ombra è quella di chi ami la conoscenza può diventare violenza. I sentimenti totalizzanti si mangiano tutto. Questi e altri comandamenti Marai condensa in quello che giunge come un appello a coprirsi il fianco.
“Quando vuole creare qualcosa, la vita realizza messinscene impeccabili…”
“Improvvisamente ho capito che non c’è nessuna persona giusta. Non esiste né in cielo né in terra. Esistono soltanto persone, e in ognuno c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che aspettiamo e speriamo.”
“Un giorno anche noi diventiamo adulti e scopriamo che la solitudine, quella vera, scelta consapevolmente, non è una punizione, e nemmeno una forma morbosa e risentita di isolamento, né un vezzo da eccentrici, bensì l’unico stato davvero degno di un essere umano.”
“Le persone dall’animo assiderato capiscono prima degli altri se qualcuno cerca un po’ di calore.”
“Non mi piacciono questi drammi silenziosi che si protraggono per decenni, con nemici invisibili, carichi di una tensione spenta ed esangue. Se ci deve essere un dramma, che sia bello fragoroso, pieno di grida, di lotte, di morti, con tanto di applausi e fischi finali.”
“Il delirio non può essere spiegato, prima o poi irrompe nella vita di ognuno. E forse è davvero povera una vita che non sia stata spazzata via, almeno una volta, dal turbine di una vita come questa, una vita il cui edificio non sia mai stato scosso da un terremoto, travolto da un tornado che fa volare le tegole del tetto e, ululando, smuove per un attimo tutto ciò che la ragione e il carattere avevano tenuto in ordine.”
A questo punto, siete dentro Marai e non potete tornare indietro. Avanzate con “Divorzio a Buda”, l’ultimo della trilogia degli anni Quaranta, un “giallo” costruito su non detti e rimpianti. Ciò che è stato soffocato riemerge in un notturno e tormentato faccia a faccia tra i due protagonisti. Nell’incipit il Fato dà le carte e poi l’autore, attraverso le sue tipiche suggestioni e reticenze, trasporta nella clandestinità in cui spesso si consumano gli eventi più clamorosi. Quelli collettivi e quelli individuali, legati nella seconda e definitiva stesura del romanzo, che, non a caso, è del 1939.
Mi sono dilungata ma a chi non ne avesse abbastanza consiglio ancora “L’eredità di Eszter”, compendio di sonnambulismo senza pericoli menzogne e amori senza speranza, “L’isola”, una domanda che trova risposta solo varcando i limiti, “La sorella”, la degenza a Firenze di un pianista che avverte che niente sarà più come prima, e “Il macellaio”, esordio letterario e lucida cronaca della crudeltà umana.
Marai è molto di più e son certa lo coglierete attraversandolo.
Non mi resta che ribadire per tutti il sincero augurio di un 2024 sui libri.
Gemma, di nuovo nella capitale.
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