Por el analfabeto a quien escribo
di Gemma Acri Guido
La recensione di oggi è una sorpresa per mia sorella. In settimana mi ha parlato con entusiasmo della serie TV Rai “La Storia” e mi ha suggerito di cogliere l’attimo e proporre siffatto pilastro della letteratura contemporanea. Le ho promesso di rifletterci e di scrivere eventualmente a fine mese. Sono tornata a casa, invece, e, lungi da me la copia cartacea (letta quanti anni or sono?), ho riascoltato il libro e, confrontandomi con un classico su cui è stato già detto troppo, mi sono sperimentata nella pirobazìa. Pensiero ricorrente: Da ‘ndo l’acchiappo? Su cosa mi focalizzo? L’autrice, la trama, la critica, i temi? Non avendo ancora visto la fiction diretta da Francesca Archibugi, non posso esprimermi su come il romanzo sia stato trasposto sullo schermo e, dunque in maniera imparziale e a braccio, provo a convincere chi la sta guardando e chi non lo farà a procurarsi comunque le 700 pagine e da esse lasciarsi incantare.
Composto in tre anni e pubblicato da Einaudi nel 1974, in versione tascabile e a prezzo accessibile per espressa richiesta di Elsa Morante, il long seller fu il successo editoriale più importante fra “Il Gattopardo” (1958) e “Il nome della rosa” (1980) e scatenò un accesso dibattito tra gli intellettuali. Qualcuno lo ritenne “patetico”, erano gli anni di piombo, all’unanimità lo si accolse come “straordinario”. Una donna, partendo dal “basso”, si era misurata con la grande Storia. La Morante, dal carattere relativamente impossibile, ex moglie di Alberto Moravia, aveva da poco scoperto i quaderni di Simone Weil, vinto il premio Strega con “L’isola di Arturo” e suscitato adorazioni con “Menzogna e sortilegio” e “Il mondo salvato dai ragazzini”. Sulla sovraccoperta di quest’ultimo, poiché era d’obbligo fornire una scheda biografica, nel ‘68 aveva fatto scrivere: «E.M. è tuttora vivente, abita a Roma nell’unica compagnia di un gatto. Le sue amicizie (poche) le trova a preferenza tra i ragazzini, perché questi sono i soli che si interessano alle cose serie e importanti. Gli adulti, in massima parte, si occupano di roba trita e senza valore. […] Come professione o mestiere, il suo ideale sarebbe di andare in giro per le strade a fare il cantastorie. Questo mestiere infatti le permetterebbe fra l’altro di incontrare l’unico pubblico che oramai sia forse capace di ascoltare la parola dei poeti.». Occupa spazio questa citazione, ma la riporto perché “illumina” lati oscuri o fraintesi dell’autrice e conferma come l’infanzia, nella sua opera, assuma un ruolo centrale.
Fatto strano per la produzione del tempo, un bambino assurge a protagonista: si tratta di Useppe, discrimine tra il mondo umano e il mondo animale, sa articolare il linguaggio degli uomini e delle bestie e ha un madre donna, Ida, e una madre cagna, Bella. Incarna quell’analfabeta a cui, citando Vallejo (si veda il mio titolo), la Morante dedica la saga: il messaggio, attraverso la voce infantile, diviene comprensibile a tutti.
La narrazione è divisa in otto capitoli, il primo introduttivo, gli altri dedicati agli anni tra il 1941, quando inizia la vicenda, e il 1947; sono preceduti da una breve sintesi della storia ufficiale dell’anno trattato, stampata in carattere più piccolo perché simbolo della contrapposizione tra essa, «uno scandalo che dura da diecimila anni» come volle sottolineare la Morante sulla copertina della prima edizione, e la vita di chi la Storia la subisce suo malgrado («La Storia era una grande maledizione e anche la Geografia» condividerebbero gli alunni!). Prima del capitolo iniziale e dopo l’ultimo, si trovano invece delle concise presentazioni di quello che è accaduto rispettivamente tra il 1900 e l’inverno del 1940 e tra il 1948 e il 1967.
Un’epopea che riassume gli eventi lontani e vicini, collettivi e individuali, del secolo breve; un “Promessi sposi” senza Provvidenza. L’utile non è solo letterario, nelle manifeste intenzioni della scrittrice, ma politico e soprattutto sociale. Tra gli accadimenti colossali le guerre mondiali, il primo dopoguerra con la Spagnola e la fame, il Biennio rosso, i totalitarismi, la marcia su Roma (e i tredici fucilati a San Lorenzo), le leggi “fascistissime” e dopo le razziali, le deportazioni, il Genocidio. E poi quelle “coincidenze di luoghi e orari che segnano vite intere”: quella di Gunther (nato e cresciuto nel famigerato villaggio di Dachau, soldato tedesco “impaziente d’avventura ma mammarolo”, scambia le tombe del Verano con quelle dei Cesari e dei Papi, conosce quattro parole in italiano, cercava un bordello, impose il suo seme, crepò su un convoglio aereo nel Mediterraneo); quella di Ida Ramundo (non Aida ma Iduzza, cresciuta a Cosenza, 37 anni, vedova Mancuso, maestra elementare, corpo informe e denutrito, occhi a mandorla scuri, “faccia di bambina sciupatella”, crespi ricci incanutiti, segno Capricorno incline alle predizioni); quella di Nora (padovana, vittima dello “zitellaggio prolungato”, “vampe nascoste” la facevano rivoltare contro il marito Giuseppe, poi si esauriva “svuotata come una pupazza di cenci”); quella di Alfio (il miracolato salvatosi su una palma durante il terremoto di Messina del 1908 e poi consumato da un cancro prima di concludere l’affare della sua vita).
Sono le urla “delle cavie che non sanno il perché della loro morte”, soltanto quelle dei personaggi che compaiono nella prima metà del testo. Si pensi che di Useppe ancora non si sente il “puzzo”, ma non si è stanchi delle descrizioni e degli antefatti, anzi si è affascinati dalle ironiche similitudini, da fiabe filastrocche e canzoni dialettali (calabresi, venete e romanesche), dai segreti (Nora è ebrea, Giuseppe è anarchico e alcolizzato, Ida ha gli “episodi”), dalle digressioni talvolta sospese. Così, ciò che accadde il 7 gennaio 1941, avutone cenno nell’incipit, lo si scopre solo nel quarto capitolo. In mezzo e oltre c’è un intreccio che ammetto di non saper e voler spoilerare. È da gustare appieno, riga dopo riga, il linguaggio comune ma mai banale che si invidierà alla Morante.
Per questo, e non solo, dovreste divorare il libro (e non accontentarvi delle puntate della “scatola magica”).
In conclusione… Io ed Erminia, abbiamo appurato che, nelle librerie delle principali stazioni ferroviarie di Roma e Milano, gli scaffali de “La storia” sono vuoti. Un’ottima notizia!
Gemma
Ringrazio la mamma per il tempo e la pazienza spesi per cercare la mia copia e fotografarla.
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