Il romanzo – che alterna monologo a fitti dialoghi – è ambientato in una Torino che presenta ancora le ferite della guerra. Le protagoniste sono donne sole, disincantate, annoiate dalla vita: Momina, Nene, Mariella, Rosetta restano chiuse nel loro ambiente, che è poi la medio-alta borghesia. Torino è anche la città natale di Clelia, la narratrice, donna disinibita, volitiva, di umili origini, che è riuscita, grazie al proprio lavoro, a far parte di quel mondo borghese da lei ammirato e agognato fin dall’adolescenza. Clelia dopo tanti anni ritorna a Torino da Roma con l’incarico di mettere su un atelier di moda. Ma del mondo borghese che frequenta Clelia percepisce la vacuità, il cinismo, il vuoto: «Quand’ero bambina, invidiavo le donne come Momina, Mariella e le altre, le invidiavo e non sapevo chi fossero. Le immaginavo libere, ammirate, padrone del mondo. A pensarci adesso non mi sarei cambiata con nessuna di loro. La loro vita mi pareva una sciocchezza, tanto più sciocca perché non se ne rendevano conto. Ma potevano far diverso? Al loro posto avrei fatto diverso?». Per Clelia il lavoro è stato uno strumento di riscatto, ma nel momento in cui viene assunto come un valore primario, finisce per impoverire i rapporti umani e per omologarla a quel mondo che in fondo disprezza e di cui però si sente ormai parte: «M’accorsi, camminando, che ripensavo a quella sera diciassette anni prima, quando avevo lasciato Torino, quando avevo deciso che una persona può amarne un’altra più di sé, eppure io stessa sapevo bene che volevo solo uscir fuori, metter piede nel mondo, e mi occorreva quella scusa, quel pretesto, per fare il passo. La sciocchezza, l’allegra incoscienza di Guido quando aveva creduto di portarmi con sé e mantenermi – sapevo già tutto fin da principio. […] Nemmeno di piantarmi lui era stato capace. Non si può amare un altro più di se stessi. Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno».
Ed anche il successo conseguito nel lavoro si rivela alla fine un falso obiettivo:
«M’ero detta tante volte in quegli anni – e poi più avanti, ripensandoci – che lo scopo della mia vita era proprio di riuscire, di diventare qualcuna, per tornare un giorno in quelle viuzze dov’ero stata bambina e godermi il calore, lo stupore, l’ammirazione di quei visi familiari, di quella piccola gente. E c’ero riuscita, tornavo e le facce, la piccola gente eran tutti scomparsi (…) Maurizio dice sempre che le cose si ottengono, ma quando non servono più». Gli uomini che compaiono nel romanzo corrispondono perfettamente alle donne rappresentate: fatui, cinici, incapaci di provare sentimenti profondi. Sembra fare eccezione Beccuccio, il capomastro, che appartiene alla classe operaia, l’unico tra i tanti spasimanti a cui Clelia si concede. Ma entrambi alla fine debbono prendere atto che la distanza tra loro è incolmabile. Di fronte alla dolorosa consapevolezza di Clelia e alla frivolezza delle altre risalta la fragilità di Rosetta, che ha già tentato una volta il suicidio. Rosetta avverte una mancanza (d’amore?) che nel romanzo non è ben specificata, ma solo suggerita: «Rosetta Mola era un’ingenua ma lei le cose le aveva prese sul serio. In fondo era vero che s’era uccisa senza motivo, non certo per quella stupida storia del primo amore con Momina o qualche altro pasticcio. Voleva stare da sola, voleva isolarsi dal baccano, e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo». Dietro Clelia e Rosetta si nasconde, a ben guardare, lo stesso Pavese. E il racconto del suicidio di Rosetta anticipa drammaticamente il gesto estremo che lo scrittore avrebbe compiuto di lì a poco. (Già pubblicato su Barbadillo col titolo “Perché leggere Tra donne sole di Cesare Pavese” il 17 luglio 2022)