in quella grotta in cui ci siamo amati
ha la sua propria particolarità.
Una dell’anima nostra ha la porpora
che ha succhiato nel sangue ai nostri cuori
quando io brucio e tu a quel fuoco ardi;
Un’altra imita te nei tuoi languori
e nei pallori tuoi di quando, stanca,
ce l’hai con me perché ho gli occhi beffardi.
Questa fa specchio a come in te s’avvolge
La grazia del tuo orecchio, un’altra invece
Alla tenera e corta nuca rosa;
Ma una sola, fra tutte, mi sconvolge. Azzardo una riflessione così come esteticamente matura nelle immagini provenienti dalla lettura. Intanto il poeta descrive un ricordo («quella grotta in cui ci siamo amati») e inevitabilmente questo mi sembra passi attraverso i suoi occhi. E’ con essi, i SUOI occhi, che ci permette di visualizzare una scena, erotica ad un primo livello, diversa ad un livello più profondo. Non è tanto la conchiglia la via che mi porta a battere il percorso della poesia (è certo un veicolo, l’unico e quindi il più importante a cui affida il messaggio lirico) quanto la struttura immaginifica e concettuale della lirica stessa. Oltre le conchiglie e i due amanti non sembra esserci altro. E la conchiglia non è un’entità singola, al contrario è un corpus, un insieme che costituisce la filigrana dell’ambiente in cui si svolge l’atto d’amore. È la TRAMA della grotta. È una vera e propria scena, concreta, oggettiva che ha nella conchiglia l’ultimo greto di oggettività ma anche la soglia più prossima di accesso al riflessivo, al contemplativo, al soggettivo. Ad ognuna di queste conchiglie è attribuito dal poeta un contenuto diverso: «Una dell’anima nostra ha la porpora / (…) Un’altra imita te nei tuoi languori / (…) Questa fa specchio a come in te s’avvolge / La grazia del tuo orecchio, un’altra invece / Alla tenera e corta nuca rosa». Il poeta descrive e ci fa letteralmente vedere il percorso visivo del suo sguardo. Ci fa testualmente seguire il suo sguardo. Non so perché, lo immagino perfino ad un occhio solo: come se l’altra metà dello spettro ottico fosse occupata da quelle che DOPO saranno le particolarità di lei, l’orecchio, la nuca rosa. E il percorso visivo va dal generale al particolare, (da «l’anima nostra» e «nel sangue ai nostri cuori», attraverso il fuoco di cui arde l’amata, i suoi «pallori» e «languori» fino agli «occhi beffardi», all’orecchio e alla nuca , appunto. Si procede dall’ambiente, dalla grotta la cui “pelle” è fatta di conchiglie, scendendo fino ai minimi dettagli che si presentano di fronte allo sguardo del poeta. Ma è anche un percorso, su quell’altro livello, che va dall’anima, dal sangue, dal cuore e dall’ardore e arriva allo stesso punto, i dettagli del corpo, passando attraverso i sentimenti, le esternazioni e gli stati in essere. Nulla di meno concreto e oggettivo ma come farli rientrare nella descrizione di una scena della quale sono elementi fondamentali alla rivelazione del ‘non detto’? Contenerli ognuno in ciascuna conchiglia: ecco il senso dell’oggetto e del titolo. Questo percorso -se posso- in decrescendo, si fa sempre più particolare e particolareggiato e sempre più concreto e fisico e, se bisogna seguirlo nel suo itinerario – che sia orizzontale o verticale – al contrario, non può che arrivare alla fonte dell’osservazione, al poeta stesso. C’è un elemento che mi ha catturato e mi ha portato a chiudere il cerchio seguendo questo percorso: lo specchio. Se ha ragion d’essere il percorso appena descritto che è visivo e ottico, allora lo specchio gioca un ruolo fondamentale e rivela un dettaglio importante: «beffardi» sono gli occhi. L’unico elemento che in questo iter appartiene al poeta sono i suoi occhi, guarda caso, e sono beffardi. Viene da dire: cosa c’entra col resto della poesia, della scena? Con quegli occhi, di fronte a quello specchio, il poeta può guardare quelle cose che in quello sguardo non possono rientrare, quelle estranee, quelle aliene al contesto descritto, quelle che stanno dietro e che solo uno specchio, riflettendo può rivelare. Magari anch’esse altre “conchiglie”, quelle che non si vedono… E allora continuo a seguire questo percorso e mi pare di scoprire che nel ‘decrescendo’ dell’osservazione e della riflessione, quello che sconvolge non può che afferire al poeta stesso e a ciò che ha ‘dietro sé’, forse ‘dentro di sé’ se allo specchio gli si conferisce un valore e un potere di riflesso diverso e “maggiore”. Ed è plausibile che non serva descriverlo né dettagliarlo: sarà probabilmente fatto altrove, nella raccolta, in un’altra lirica, in un’altra opera. Ciò che conta adesso è proprio quel percorso e ogni «sua propria particolarità», ognuna di quelle conchiglie! INCROSTATE non a caso. Anche e soprattutto quelle che non si vedono, che dentro nascondono i passi di un cammino che «mi sconvolge» ma che evidentemente va fatto.
Forse non qui, ma va fatto.