una sorveglianza acuta li silenzia
non stancarsi mai dei doni. Il mondo è un dente strappato
non chiedetemi perché
io oggi abbia tanti anni
la pioggia è sterile. Puntando ai semi distrutti
eri l’unione appassita che cercavo
rubare il cuore d’un altro per poi servirsene. La speranza è un danno forse definitivo
le monete risuonano crude nel marmo
della mano. Convincevo il mostro ad appartarsi
nelle stanze pulite d’un albergo immaginario
v’erano nei boschi piccole vipere imbalsamate. Mi truccai a prete della poesia
ma ero morta alla vita
le viscere che si perdono
in un tafferuglio
ne muori spazzato via dalla scienza. Il mondo è sottile e piano:
pochi elefanti vi girano, ottusi. Così scriveva Amelia Rosselli nella sua raccolta Documento, “truccandosi a prete della poesia ma morta alla vita”, e come darle torto quando la tragedia ti segna fin dall’infanzia, agli albori di tutte le speranze. Ma come può la speranza farci un danno definitivo, qual è la cifra assoluta che non declina soltanto un passaggio di consegne? La tragedia personale che si riversa in quella collettiva, che profondità di solco scava intorno alla speranza, “i fiori che vengono in dono e poi si dilatano…”, i fiori che appassiscono così come appassisce la vita, ma lei, la speranza, è sempre lì famelica a chiedere di essere alimentata con la sua tirannia, la tirannia della speranza che non vuole il suo raggiungimento, ma la sua non definitiva consacrazione per perpetrare una eterna dissolvenza. “Il mondo diventa un dente strappato con la sua pioggia sterile”, che bagna di illusioni la nostra unione con le cose e le lascia andare oltre la fine naturale, perché non ci basta la morte che ci viene assegnata in vita, perché “il mostro può al massimo appartarsi”, ma pulito ed ordinato resta ad attenderci fiducioso del nostro essere tutt’uno con lui. E sono tante le volte in cui la poesia non basta, ed è tutto ciò che resta sotto quel trucco fittizio che cola, mentre la scienza ti spazza via con una precisa definizione. Non è complicato il mondo, ed è banale anche il male nel suo ripetersi ottuso, poche cose forse si salvano e per un tempo breve, e finché c’è speranza, nulla potrà mai cambiare. (Francesco D’Angiò) LUISA DI FRANCESCO È nata e vissuta a Taranto, scrive testi poetici affidando al segno “i modi del suo sentire”. Ha pubblicato quattro sillogi: “Grammi di vero” (2020); Il vaso di Pandora” (2021); “Il mio primo è il cuore” (2021); “Quando anche i cieli tremano” (2023). Le sue poesie sono incluse in antologie nazionali. Collabora con diverse Associazioni culturali. In un giorno qualunque Uno dopo l’altro, giorni qualunque uguali a loro stessi e a me. Forse è questo morire: non sentire più niente e sgranare le ore in frammenti chicchi sparsi di melagrana come rosario di preghiera in punta di labbra. Può darsi che la vita sia questo sbriciolare istanti senza averne istinto e parvenza può darsi che la fine sia l’inizio di altra consapevolezza nell’imponderabile pienezza dell’anima, nella sola coerenza di essere palpito di universo che tutto ammanta e unisce e scolpisce, qui e oltre. Può darsi che sia quello il cuore del mondo finito nell’infinito e che le voci degli uomini rimbalzino echi di storia diversa dove io e l’altro abbiamo lo stesso sangue nelle nostre idee e i medesimi sguardi. Può darsi. Però, mi accade di udire la mia anima scuotersi sola nella litania che affiora alla bocca quando, giunta alla croce, la melagrana avrà lasciato andare tutti i suoi figli all’aspro di sorte. Può darsi che, in un giorno qualunque, ciò che era diviso tornerà ad essere. Dall’amore unito. Il finito trova senso nell’infinito? Che lo sgretolarsi del tempo sia un nuovo inizio? Forse, poi c’è l’avversativa: ‘Però mi accade…’, che mette in discussione ogni pensiero e lo spazio che rimane davanti non è che la speranza di credere nell’amore, quale sentimento unificante e fondante. (Cosimo Rodia) La bufera di Eugenio MONTALE (1896-1981) “I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie. / Le loro mani non servono più che a perseguitarci…” (AGRIPPA D’AUBIGNE’, A Dieu) La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine, (i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre) il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, – e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa… Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli, mi salutasti – per entrar nel buio. La lirica, che apre la terza raccolta di Montale, dal titolo: “La bufera e altro”, colpisce per l’attualità del messaggio, legato “al male di vivere” del nostro tempo, alle contraddizioni di “questa epoca”, agitata da conflitti e persecuzioni. La bufera è la guerra che travolge, annienta, disgrega l’umanità. Ieri come oggi. Testimonianza storica (composta negli anni ’40-’42) è, nel contempo, “emblema sofferto” della ricerca di un senso che dia valore al mondo, privato di certezze. La quotidianità, la serenità del vivere divengono metafisica (forse utopistica) aspirazione ad una condizione esistenziale di pace e speranza, oltre e contro “quel buio”, in cui si immerge, perdendosi, anche l’ultimo gesto di saluto. (Luisa Di Francesco) GIOVANNI DI LENA nasce nell’agosto del 1958 a Pisticci (MT), dove tuttora risiede. Ha pubblicato le seguenti raccolte: Un giorno di libertà (ed. La Vallisa, Bari 1989); Non si schiara il cielo (Piero Lacaita ed., Manduria 1994); Il morso della ragione (Ermes ed., Potenza 1996); Coraggio e debolezza (EditricErmes, Potenza 2003); Non solo un grido (ed. La Vallisa, Bari 2007); Il reale e il possibile (ed. Archivia, Rotondella 2011); La piega storta delle idee (ed. Archivia, Rotondella 2015); Pietre (EditrcErmes, Potenza 2018); Piccole faville (Villani ed., Potenza 2022). Alla vita Governata da leggi misteriose passi per alcuni serenamente e severamente per altri. Spietati giungono i tuoi fendenti e inaspettate le tue carezze. Ho il cuore rotto e la barba bianca. Sento che mi scappi dalle mani e, mentre voli verso nuovi giardini, nel mio orto qualche fiore trema. Ogni sera ti ripercorro e penso che mi devi qualcosa, ma con la luce del nuovo giorno – dimentico di tutto – mi scopro di te nuovamente innamorato e altro più non chiedo. Versi che costituiscono un consuntivo esistenziale, con la vita che a volte si dona serena e altre volte ‘severa’. Il tempo che macina i giorni lascia un senso di tremore, quasi un senso di spaesamento. Ma dopo la notte, con l’aprire la finestra ‘con la luce del nuovo giorno’ il poeta scopre di essere attaccato alla vita, innamorato della vita, sicchè la tristezza lascia il posto alla gioia. Un inno ad amare la vita, nonostante tutto. (Cosimo Rodia) Felicità raggiunta di Eugenio MONTALE (1896-1981) Felicità raggiunta, si cammina per te sul fil di lama. Agli occhi sei barlume che vacilla, al piede, teso ghiaccio che s’incrina; e dunque non ti tocchi chi più t’ama. Se giungi sulle anime invase di tristezza e le schiari, il tuo mattino è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. Ma nulla paga il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case. Felicità raggiunta di Montale, mette in evidenza quanto la felicità sia fragile e sfugga al nostro controllo: entra in maniera arbitraria nella nostra vita e in modo altrettanto arbitrario ci abbandona. Ma se è vero che “nulla paga il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case” lo spettacolo del sole che si alza e illumina un nuovo giorno non ha prezzo. (Giovanni Di Lena) MAURIZIO EVANGELISTA vive a Bisceglie, in Puglia. La sua ultima pubblicazione è Mr. me (Arcipelago Itaca, 2022) con il quale è risultato vincitore della VII ed. del Premio naz.le indetto dalla casa editrice nel 2021. Organizzatore e direttore artistico dell’evento Notte di Poesia al Dolmen della città di Bisceglie, ha partecipato, in qualità di ospite, alla XVII ed. del festival di poesia di Varsavia e alla XI e alla XVI ed. del Trireme della Poesia Ionica a Saranda in Albania. La plaquette: La città inventata (Secop edizioni, 2015) ha ricevuto il premio della critica a Sremski Karlovci. geografia urbana avvolge i collant giù per le gambe sullo sfondo salotto un animale si sveglia è più carne che pelle quando cammina l’inverno avvizzito è un vento sulla pancia la beata è al centro incorniciata forse sogna figure altro per amore somiglia a una corona di stelle una misura di nero con luci piccole infilzate a cerchio forse cerca un altro padre appeso come drappo spogliato per la sua santa madre smantellata lavata lucente allo specchio dei cessi con 10 kg di bambina nuda sconfezionata per spedizione pacco intenzionale le fa la lingua quando dice casa non dice mamma. Qui si percepisce una donna nel suo spazio sia fisico sia immaginario. Una donna si prepara per un appuntamento (clandestino?); c’è una maternità possibile ma allo stesso tempo allontanata (‘non dice mamma’). Non c’è una successione tra le scene descritte, vi è semmai un setting ideale per un’ambientazione drammatica in cui si muove l’immagine riflessa allo specchio di lei stessa. (Cosimo Rodia) Mangiare insieme di Kim ADDONIZIO (1954) So che la mia amica se ne sta andando
anche se è ancora seduta lì
di fronte a me, al ristorante,
e si china sul tavolo a mangiare
il pane nell’olio nel mio piatto, so
che capelli fitti aveva una volta,
e cosa le costa liberarsi
del berretto del suo uomo a metà pranzo,
per guardare negli occhi il giovane cameriere
e sorridere quando ci chiede
se va tutto bene. Lei mangia
come un morto di fame – pollo, involtini di vite,
i fiocchi burrosi di sfoglia –
e ciò che la sta uccidendo
mangia, anch’esso. La osservo che solleva
un’oliva nera, lustra, e ne stacca
la polpa dal nocciolo, osservo
le lunghe dita, fini, e il volto
gonfio di medicine. Abbassa
lo sguardo sul cibo, fingendo
di non sapere che so. Se ne sta andando.
E continuiamo a mangiare. Kim Addonizio scrive con grinta e grazia, con desiderio di amore e redenzione, il tipo che, per sua stessa ammissione, può venire solo nell’oscurità più oscura, quando la sopravvivenza non sembra più probabile. La sua è una poesia che indirizza il lettore con i temi più svariati, una poesia a tratti intimista e confessionale, ma che rivela ogni volta una peculiare capacità nel setacciare la vita, con le sue gioie e le sue angosce. Come in questa poesia dove il tema della morte e soprattutto della malattia, è poeticamente affrontato in maniera che definirei morbida, come un senso di scoperta e di comunione improvvisa, una profondità ritrovata nei gesti più comuni e quotidiani, come può essere un pasto consumato in un giorno qualsiasi con un’amica. Questa poesia di Kim Addonizio è una poesia che si muove, una poesia che osserva, non immagina; si ha la sensazione che la stessa autrice stia facendo conoscenza con la poesia all’inizio dei versi, come un’attrazione fisica, finché non ci si sente più estranei alla scena, ma parte di essa e parte della stessa poesia. (Maurizio Evangelista)