La prima notte di quiete di Valerio Zurlini
di Sandro Marano
La prima notte di quiete, diretto nel 1972 da Valerio Zurlini, è un film di culto, che ha tuttora nutrite schiere di estimatori. All’epoca riscosse un largo successo di pubblico, ma divise la critica. Rientra in un filone che potremmo definire esistenzialista e segna in qualche modo un distacco del regista bolognese dai precedenti film incentrati su temi più sociali. Può senz’altro considerarsi «un piccolo classico assai sottovalutato, (…) Meno aristocratico di Luchino Visconti, meno esistenzialista di Michelangelo Antonioni, (…) Valerio Zurlini cavò fuori dalla pellicola qualcosa di “francese”, pur senza copiare i francesi» (Donato Novellini, Barbadillo, 26 marzo 2019). In ogni caso «ciò che rende La prima notte di quiete uno dei film più importanti del cinema italiano degli anni Settanta e non solo è proprio la sua assoluta singolarità stilistica, irriducibile ai moduli del cinema coevo» (Alessandro Baratti, Gli spietati rivista di cinema on line, 12.01.1999).
La trama
Una Rimini uggiosa, spoglia, immersa nella nebbia e distante anni luce dalle consuete cartoline turistiche fa da sfondo alle vicende. Qui è giunto per una supplenza al liceo classico il professore di lettere Daniele Dominici, magnificamente interpretato da un Alain Delon oltremodo fascinoso, sulle soglie della quarantina, che indossa di continuo un cappotto cammello e un dolcevita e sembra sempre in fuga da se stesso.
Dominici convive con Monica (Lea Massari), una donna che per lui aveva abbandonato anni prima il marito. Frequenta alcuni vitelloni del luogo passando le notti tra alcol e gioco. Tra questi spiccano Giorgio Mosca detto Spider (Giancarlo Giannini) e Gerardo Pavani (Adalberto Maria Merli), fidanzato di Vanina Abati (Sonia Petrova), una studentessa bella e misteriosa, dagli inconfessabili segreti, sospesa tra peccato e purezza, di cui Dominici si invaghisce per la sua aria triste.
Il professore è un uomo disincantato, malinconico, un “bel tenebroso”, che ha come uniche passioni l’arte e le donne. Non si cura della disciplina in classe e rifiuta l’impegno ideologico: «Per me, neri e rossi, siete tutti uguali, i neri sono più cretini», dice allo studente sessantottino che gli chiedeva di firmare una petizione. È questo tra parentesi il motivo per cui il regista fu inviso alla critica militante dell’epoca. L’unico interesse del professore è far capire perché un verso di Petrarca è bello e far ammirare a Vanina l’affresco della Madonna del parto di Piero della Francesca.
Il regista lo descrive come «un reietto in un mondo da quattro soldi, un uomo nobile in un mondo di cialtroni, un aristocratico in un mondo di stupratori di puttane, un professore di storia dell’arte in un liceo di cretini, un uomo fine in mezzo alla volgarità, talmente fragile dall’essere vinto dagli altri». Sotto il profilo letterario la sua figura fa pensare all’Alain di Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, al Mersault de Lo straniero di Albert Camus ed anche ai giovani protagonisti de Il diavolo sulla collina di Cesare Pavese e, per certi versi, al Dino de La noia di Alberto Moravia.
Perché la prima notte di quiete?
Quando Spider chiede a Dominici perché ha intitolato una sua raccolta di poesie “La prima notte di quiete” (che è un verso di Goethe e dà il titolo al film), si sente rispondere che la prima notte di quiete è la morte, perché finalmente si dorme senza sogni.
Il pensiero della morte si traduce in quella malinconia che pervade nel film gli ambienti, i volti dei personaggi, i brevi dialoghi. È la mestizia del finito di cui parlava Hegel nella Logica. È il vivere per la morte di Heidegger. Per la straordinaria consonanza con questo tema non possiamo non richiamare quella pagina del Diario di Drieu La Rochelle, datata 17 marzo 1944, in cui lo scrittore francese annotava: «vorrei rientrare nella notte che non è la notte, nella notte senza stelle, nella notte senza dèi, nella notte che non ha mai portato dentro di sé il giorno, che non ha mai sognato il giorno».
L’atmosfera magistralmente creata dal regista bolognese prelude infatti alla morte del protagonista. Non ci sarà un domani o un altro giorno per Dominici, come invece sembrano suggerire nel film le note della canzone di Ornella Vanoni “Domani è un altro giorno, si vedrà”.
La vita come dramma
Un ulteriore elemento della filosofia esistenzialista che permea il film, ed è strettamente connesso al precedente, è racchiuso nella scena dei delfini che saltano e giocano nell’acquario e strappano a Daniele Dominici l’unico sorriso di tutto il film.
Nel dialogo (o quasi monologo) con Vanina lui scommette di sapere cosa lei pensa:
«Daniele: Ti fa pena vederli prigionieri.
Vanina: Un po’.
Daniele: Io invece penso che se li mettessimo in mare morirebbero subito di nostalgia per la loro bella piscina con pranzo e cena assicurati… Non c’è che la mancanza di liberta a darti certe ventate di allegria».
Come interpretare quest’ultima frase? Emerge qui, a nostro avviso, la differenza tra l’essere dell’uomo e l’essere degli altri enti. Non è l’intelligenza o la bellezza a distinguere l’uomo e il delfino. È piuttosto il fatto che il delfino, a differenza dell’uomo, non si interroga sulle propria condizione, sulle cose che lo circondano. Il suo essere è fissato una volta per tutte. Mentre l’uomo, vivendo, si trova gettato, come osserva Ortega y Gasset, «nella circostanza, nello sciame caotico e pungente delle cose». Deve scegliere ogni qual volta cosa fare. Per questo la vita, come ripete il filosofo spagnolo, è un dramma: «È il dramma dell’uomo quando deve sbracciarsi e nuotare, naufrago nel mondo». La libertà è un peso. Non porta allegria, ma malinconia.
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