Canti al crepuscolo di Anna Cellaro, G. C. Lisi edizioni, 2024

di Cosimo Rodia

 

Anna Cellaro esplicita già nel titolo la tipologia della sua narrazione; ovvero, in quella penombra in cui l’immagine si consegna lentamente all’oscurità, in quel momento mediano tra la chiarità del giorno e il buio della notte, si situano le cinquantatre liriche della raccolta. Emblematico è anche il sostantivo iniziale che chiarisce la presenza di temi strettamente personali, con un collegamento velato all’amore; un amore come àgape, nel senso cristiano, come dono, carità, ovvero come l’andare  oltre se stesso.

Così Cellaro partorisce una silloge tematicamente omogenea, eccetto un piccolo insieme di testi che aprirebbe un’altra formidabile possibilità lirica.

Se guardata in successione diacronica, quest’ultima raccolta giunge, dopo una serie di esercizi, come se l’autrice si fosse allenata per il salto di qualità, per una poesia di spessore, linguisticamente vigilata e raccontare i giorni di attesa, i rammemoramenti, il dolore, il peso della vita, le delusioni, con passaggi anche azzardati e carichi di sentimenti contrastanti.

I “Canti”, dunque, contengono una scrittura piena di riservatezza, di mistero e aleggia un senso di precarietà, com’è riscontrabile nella lirica iniziale: “Ci riconosciamo effimeri/ infiorescenze di maggio./ I sorrisi e i pensieri/ sono scollature nella voce del tuo tracciato”.

Troviamo un’inferenza eliottiana nei due primi versi, per raccontare, poi, con un linguaggio esplosivo una precarietà esistenziale ed emotiva.

Un fiume poetico che sgorga limpido, con un codice segreto che accattiva, per musicalità e per toni cristallini; e colpisce il linguaggio lirico impastato con la quotidianità, con la realtà circostante, che si dipana in un ritmo ora incalzante, a volte sognante: “L’agitarsi dei pensieri/ spinescenza notturna/brucia nel fuoco della stoppia”. L’anima è offuscata e le stelle non brillano.

Nei versi si respira un amore per il mondo, la cui passione ha forza di delineare paesaggi, elaborando delle sintesi folgoranti: “La vista dei colli/col tappeto di grano/già indorato”, “Randagio il cielo/sulle rive melanconiche”.

Una poesia che prende forza dai molteplici richiami metaforici, con riferimenti che spesso rimangono nascosti, tanto che si potrebbe pensare che quanto scritto dalla Cellaro sia più una raffigurazione alla Dickinson: “Immagino come lasci/scivolare la rena tra le dita”.

Il tu potrebbe essere una modalità per misurare il tempo nella sua ineluttabilità. “Come un vento/…/sopraggiungo a te/…/con lo sguardo angelico”. Sopraggiunge dove? Ad ogni modo, rimane oscuro il tu con cui spesso l’autrice dialoga e a cui rimanda attese e nostalgie; così, il tema dominante è quell’amore tout court, come si diceva dell’àgape, quindi di un amore dell’assente.

Una caratteristica di fondo dei cinquantatre canti dal carattere epigrammatico, allora è l’indeterminatezza, del ‘tu’ mai delineato nei suoi tratti o parole. Si potrebbe pensare ad un oggetto d’amore realizzabile non in questo mondo; così il ‘tu’ diventa funzionale a rimodulare, in modo dialogico, il ricordo, il desiderio, le attese, quasi delineando un’altra possibilità, che quest’essere tutto passato, configuri qualcosa di molto prossimo al sogno: “Pagaio il sogno del tempo delle esplosioni “; oppure: “S’acciglia la linea del tramonto/…/sei la finestra/del pensiero”.

Un bilancio esistenziale in deficit come lo si rileva in più liriche: “Respiro gli sguardi del vento/mentre la linea della telegrafica/chiama la notte fredda”; e, più avanti: “Un filo nero corre sotto la coltre blu”; e ancora: “E ho buttato giù dal ramo/il frutto dei miei anni maturi./Nell’ora della vendemmia/si raccoglie l’odore degli anni/che tradiscono”.

È evidente il richiamo al tempo Caino e al suo oltrepassamento; di fronte a ciò, non manca la presa di coscienza e il disincanto, come si evince in “Sulle mie colline”: “Sulle mie colline/le nuvole si rincorrono/e di tanto in tanto adombrano/le orchidee sparse./Il vento suona i buchi calcarei/e quasi modella i corpi/mentre le foglie cadono/come i pensieri”.

E dal disincanto si passa, poi, ad un atteggiamento epico di accettazione della vita, affrontata a viso aperto, come si legge in “I campi già mietuti”, in cui dopo la raccolta, l’aratro prepara il terreno a nuova semina: “I campi già mietuti/s’imbastiscono con la polvere/mentre l’aratro li prepara/per nuove semine./Così riavvolgo il tempo dell’attesa/e controvento mi ammanto/di boccioli settembrini”. Un inno vitale a saper girare pagina e rialzarsi dopo knockout. Una predisposizione ancora più forte dopo la malattia affrontata con forza stoica, come in: “Dall’inquietudine è nata/una galassia nel petto/si nasconde fitta/nelle mie grazie/e aspetta la tormenta/per essere inghiottita./Questo è un anno di torti/che fredda la mia ombra,/sulle braccia avanza il lattice/del fico come un sussurro/dei miei avi: viene a sciogliere/i nodi della voce”. L’inatteso è dietro l’angolo ma con coraggio si stacca il biglietto per andare oltre; e una volta che le forche caudine sono attraversate, insorge un desiderio forte di ricominciare a riamare questa vita che ci è stata data da vivere: “E mi risveglio sotto il cielo/dei miei anni profumati/sento piangere la mia ferita/e con i pugni afferro la speranza/per quando tornerà l’incanto”.

Un ordine compositivo originale con un lessico personale e con la volontà di esprimere l’inesprimibile, tuffarsi nelle emozioni, cogliere il flusso informe della realtà, aderendo alle cose che non si riescono a padroneggiare.

È una poesia carica di suggestioni figurative con la rappresentazione simbolica dello scorrere del tempo, dell’inesprimibile sentimento che all’autrice è appartenuto, ed ora nostalgicamente le riaffiora con illuminazioni che offrono solo per un istante una medicazione.

Molte liriche si reggono su suggestioni visive, sulle ripetizioni di atmosfere e ricordi carichi di un senso forse remoto, ma ancora, pur nella nostalgia, capace di donare un senso dolceamaro.

È doveroso rilevare sia gli scorci paesaggistici che radicano la poetessa alle sue Murge, sia la scrittura senza tirate descrittive, per trovare di contro passaggi quasi visionario, per via degli accostamenti imprevisti ed improvvisi, con l’uso di numerose sinestesie: “baci di porpora”, “abiti di solitudine”, “respiri gli sguardi” e di altrettante metafore originali, scatenando una catena di suggestioni che a volte disorientano.

Nella Cellaro la parola poetica si carica di capacità evocativa per effondere bagliori di luce sulla realtà e sulla propria storia personale. Così i lampi improvvisi esplodono come lapilli vulcanici, con la possibilità di diverse interpretazioni.

Una bella prova che dietro la vena malinconica, il passato anelato, le proiezioni metonimiche, sembra che si affermi in modo inequivocabile l’incontestabile legge del vivere, della verità che tutto passa, che il tempo macina giorni e situazioni con una forza impersonale, e che alla fine bisogna accettare la vita, trovando, in un equilibrio tutto personale, le ragioni del vivere.

Lascia un commento