Filosofia e ironia
di Sandro Marano
Nel 1906 Giovanni Papini pubblicava il suo primo libro, Il crepuscolo dei filosofi, che della sua prolifica produzione resta senza dubbio uno dei libri migliori.
Nel panorama della storia della filosofia il suo modo piuttosto personale di fare filosofia fa storcere il muso agli accademici e non ha trovato in Italia veri e propri continuatori, fatta eccezione in qualche modo per Luciano De Crescenzo con la sua Storia della filosofia greca. Nel mondo anglosassone, invece, c’è una diversa tradizione, in cui il rigore espositivo non disdegna l’accessibilità e l’ironia, e perfino l’umorismo, come nella Storia della filosofia occidentale di Bertrand Russell.
Nel libro Papini esamina criticamente sei filosofi, a ciascuno dei quali dedica un intero capitolo: Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer e Nietzsche. Chiude il libro un capitolo “Licenzio la filosofia”, eliminato, nella 2^ edizione del 1914, ma riproposto nelle successive, in cui l’autore sembra prendere le distanze dalla filosofia, lanciandosi però in un vorticoso, fastidioso e affatto gratuito superomismo.
Nei suoi ritratti filosofici Papini muove da una osservazione di Nietzsche secondo cui ogni filosofia non è altro che una confessione del suo autore. «La filosofia», scrive Papini, «non è qualcosa di indipendente dall’uomo tutto intero, ma è precisamente l’espressione razionale di ciò che l’uomo ha di più profondo». Influenze familiari e sociali, il temperamento, i sentimenti sono sempre presenti, magari impliciti e nascosti, in ogni filosofo.
Così, ad esempio, la filosofia di Kant è riconducibile al fatto che egli era un onesto borghese e che la sua vita fu mediocre, meschina, ristretta: «tutto gli mancò per farne un uomo interessante: perfino le persecuzioni e le avventure coniugali. Dalle prime si liberò col silenzio, dalle seconde col celibato». Kant voleva salvare la morale dal relativismo e la scienza dallo scetticismo e per questo escogitò l’imperativo categorico, l’a priori, il noumeno.
Vale la pena leggere la gustosa e apprezzabile critica di Papini all’imperativo categorico di Kant: «la preoccupazione scientifica di Kant esigeva, per ottenere l’universale, il postulato dell’eguaglianza degli uomini. L’imperativo per essere razionale, deve adattarsi a tutti (…). Ora questo principio la ragione non lo dà, né può darlo, anzi è forzata a riconoscere il contrario. Osservando gli uomini essa ne scopre le innumerevoli e profonde diversità, date dal temperamento, dall’età, dalla razza, dal luogo, dal tempo, dalla cultura. Essa è costretta ad ammettere che gli uomini sono simili in quello che hanno di più basso, di piùcomune, di meno personale, cioè nelle funzioni animali. Ma anche in queste sono simili in quanto se ne fanno dei concetti, cioè in quanto ci si stacca dal reale. Ad esempio tanto un villano che il Petrarca sono simili nel fatto di avere dei bisogni sessuali, ma si somigliano soltanto rispetto al fatto erotico elementare. Se scendiamo al reale vediamo che il villano non cerca che d’accoppiarsi con una villana mentre messer Francesco va in cerca di gentildonne e oltre che accoppiarsi scrive sonetti e canzoni. Ogni uomo è qualcosa di diverso, di nuovo, di ineffabile, di assolutamente personale e l’eguaglianza umana non è che un’illusione intellettualistica generata da bisogni sentimentali».
Qui ci soffermiamo sulla critica che Papini muove a Nietzsche. Per Papini, il segreto dell’autore di Così parlò Zaratustra è nella sua debolezza: l’apologia nietzschiana della forza, della salute, della gioia trova radice nella sua infermità: «non ha saputo, lui, l’ammiratore di Cesare e di Bonaparte, impadronirsi praticamente di ciò che è e allora, come quei cristiani e quegli utopisti ai quali non ha risparmiato l’odio e le invettive, si è rifugiato anche lui in ciò che non è ancora, nell’avvenire».
La volontà di potenza da lui propugnata ed invocata è una sorta di compensazione a questa sua debolezza, che si manifesta tra l’altro anche nel modo aforistico in cui si esprime. I suoi libri, dice Papini, hanno «un’aria di mercati orientali ingombri di cenci vecchi e di drappi preziosi ammucchiati e mescolati senza ordine».
E a proposito del cristianesimo che Nietzsche critica riducendolo a una morale servile che dice no alla vita, Papini osserva maliziosamente che «rimane misteriosa la potenza che i deboli e gli schiavi avrebbero dimostrata, imponendo ai potenti, ai signori laloro morale. Imporre ai forti i valori dei deboli non è forse una delle prove più meravigliose di potenza?».
La filosofia di Nietzsche è, secondo Papini, soltanto una trasfigurazione ditirambica del naturalismo evoluzionista: «Il Nietzsche ha detto in bella poesia tedesca ciò che altri diceva in cattiva prosa francese o inglese (…) La sua teoria dominante è quella di accettare la natura. Quel che è naturale è buono, gli istinti sono sacri, i bisogni del corpo intangibili (…) tutto quel che c’è da fare oggi è distruggere tutto ciò che gli uomini hanno creato per modificarsi (leggi, morali, ecc.) e lasciar libera la natura».
Anche per Nietzsche Papini adopera a mo’ di ariete, come fa per gli altri cinque filosofi esaminati, il concetto di incomprensibilità o di indeterminatezza del tema fondamentale della loro filosofia, pur nella consapevolezza che le critiche fondate sono quelle che mettono in evidenza o errori logici o deficienze di osservazione, non essendoci altrimenti che mera contrapposizione di gusti a gusti.
Così Papini pone in rilievo l’indeterminatezza in cui Nietzsche lascia i concetti di vita e di istinto: sembrerebbe, infatti, che Nietzsche accetti la Vita in tutte le sue forme, che abbia un ideale quantitativo (cioè è buono tutto ciò che accresce la vita). Ma poi, in realtà, non accetta indifferentemente qualunque forma di vita, ma pone una gerarchia tra le varie manifestazioni vitali, il che suppone un criterio qualitativo e non quantitativo.
Malgrado le critiche che si possono rivolgere all’autore per il suo modo a volte ingeneroso e unilaterale di trattare i filosofi, le sue pagine sono gustose, piacevoli, ricche di spunti. E non si può non convenire con quanto egli stesso scriveva nella prefazione, cioè che i lettori avrebbero trovato nelle sue «affrettate pagine delle gioie e dei sentieri».
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