La storia luogo della libertà

di Sandro Marano

 

Se al tempo del liceo e dell’università  – erano gli anni ’70 del secolo scorso! – non mi sono piegato alla virulenta e predominante predicazione marxista lo devo in buona parte a Benedetto Croce e, in particolare, a due sue opere: Teoria e storia della storiografia (1917) e La storia come pensiero e azione (1938). A lui devo l’aurea convinzione che la storia non è mai giustiziera ma giustificatrice e la critica serrata e incalzante dell’utopismo. La storia non può ridursi ad un tribunale davanti al quale debbano sfilare Cesare o Mussolini, perché tutti i componenti del coro sono «colpevoli-incolpevoli, misti di bene e di male». E alle filosofie di Marx e di Marcuse, che preconizzavano uno stadio finale del cammino storico, don Benedetto rispondeva che «in una vita paradisiaca, senza lavoro e senza travaglio, in cui non si urti in ostacoli da superare, neppure si pensa, perché è venuto meno ogni motivo di pensare e neppure e si propriamente si contempla, perché la contemplazione poetica chiude in sé un mondo di pratiche lotte ed affetti».

Le sue parole vengono incontro al nostro bisogno di consolazione (per chi ha perso la fede in un Dio trascendente) e ci mostrano l’importanza della storia per la nostra educazione: «alla storia si chiede la nobile visione delle lotte umane e nuovo alimento all’entusiasmo morale». E la stessa impressione di straordinaria serenità nell’incessante battaglia della vita che colsi allora l’ho riportata ancora una volta rileggendo a distanza di tanti lustri quei due testi.

Applicando il metodo crociano allo stesso Croce, sceverando cioè ciò che è vivo da ciò che è morto, provo a sottolineare alcuni punti.

Quel che è da rigettare, a mio avviso, è proprio la sua impostazione idealistica, con il suo ottimismo e il suo corollario della fede in un progresso continuo e inarrestabile dello Spirito, che lo porta a negare che nella storia  si possa parlare di decadenza, perché «non c’è mai decadenza che non sia formazione o preparazione di nuova vita e pertanto progresso».

Tuttavia questa impostazione cozza contro i fatti storici.  Contrariamente all’idealismo che non può ammettere che la realtà  storica, al di là di passeggeri turbamenti, possa essere in sé difettosa e zoppicante, non possiamo non considerare che «tutto è possibile nella storia – tanto il progresso trionfale e illimitato quanto la periodica regressione. Perché la vita, individuale o collettiva, personale o storica, è l’unica entità dell’Universo la cui sostanza  sia il rischio. È, rigorosamente parlando, un dramma» (Ortega y Gasset).   Rispetto all’idealismo crociano sentiamo più vicino, e in definitiva più veritiero, il vitalismo storicista di Ortega y Gasset, che rimarca l’insufficienza dell’idealismo che sacrifica a torto il mondo naturale e sociale,  raccontando la storiella di quel tale che aveva deciso di farla finita, ma nel momento in cui stava mettendo la corda al collo, sentì il profumo di una rosa e desistette dal suo proposito.

E per venire alla poesia, è vero, come osserva Croce, che non si può ridurre Dante al canto del cigno del Medioevo ed Ariosto all’Umanesimo, giacché questa interpretazione della poesia rende i poeti «poveri, angusti e affatto impoetici». Ma perché negare che il poeta interpreti nel suo canto anche il sentire della società del suo tempo? Che il poeta, se è grande, sia un “noi” e non solo un “io”?

A chi giudica la storia una vicenda monotona, «in cui alla libertà segue la tirannia e alla tirannia di nuovo la libertà», Croce non a torto consigliava di andare a scuola dagli innamorati «sempre persuasi che la persona amata e il loro proprio amore è cosa affatto nuova e unica al mondo».

E all’ideale della libertà, quasi una sorta di religione, il filosofo dedica pagine vibranti di passione. Per lui la storia è storia della libertà. E di fronte all’obiezione che «la libertà abbia ormai disertato il mondo» e che «la storia tutta mostra con brevi intervalli di inquieta, malsicura e disordinata libertà (…) un accavallarsi di oppressioni, d’invasioni barbariche, di depredazioni, di tirannie profane ed ecclesiastiche, di guerre tra i popoli e nei popoli, di persecuzioni, di esili e di patiboli, il filosofo rispondeva che «non v’è altro ideale che lo pareggi, nessun altro che faccia battere il cuore dell’uomo nella sua qualità di uomo» e che infine «la libertà non può vivere diversamente da come è vissuta e vivrà sempre nella storia, di vita pericolosa e combattente», anche perché «un mondo senza contrasti, senza minacce e senza oppressione» finirebbe per darci l’immagine di una noia infinita.

Ricordiamo che Croce scriveva La storia come pensiero e azione negli anni ’30 del Novecento, avendo sotto gli occhi la situazione di quel tempo. Ma qualcuno può onestamente dire che queste osservazioni non siano calzanti anche per l’oggi?

 

 

 

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