L’isola dimenticata di Guido Quarzo e Anna Vivarelli, uovonero, 2024.

di Cosimo Rodia

 

Metti una labile cornice storica, un’isola vulcanica abbandonata (una sorta di Alcatraz dell’Atlantico), un mistero che incombe sui pochi abitanti dell’isola, tre ragazzi naufraghi, e nasce un romanzo ricco di climax, costruito con tante figure narratologiche, da impareggiabili maestri di letteratura ragazzi, capaci di avvincere e scatenare la magia dell’immedesimazione del lettore nei protagonisti.

Suggestiva è la modalità del riconoscimento dei vari personaggi, che avviene lentamente con l’avanzare della vicenda; e mentre la storia si snoda, il lettore si carica di ansia per i protagonisti che vengono a capo della situazione e con spirito d’iniziativa, trovano una via di fuga, da un’isola in cui si arriva ma non si riparte.

I protagonisti sono artefici del proprio destino, e in questo progredior gli autori mettono in campo tutte le caratteristiche dell’avventura feuilleton.

Il mozzo Lucas e Isabella con il fratello Giacomo sono gli unici superstiti di un piroscafo affondato; giungono su un’isola abitata da pochissime persone, che assumono da subito atteggiamenti affettati, di un formalismo tipico di quella realtà da cui rifuggono.

Tra verità smozzicate, Lucas conosce la verità riguardo gli abitanti dell’isola e le ragioni per cui essi non possono che rimanervi.

Mentre i tanti medaglioni personali vengono a galla, i racconti sono permeati di altri temi, com’è nelle corde degli autori: di madri abbandonate, infanzia negate, ignoranza verso il diverso (nella fattispecie per i soggetti con sindrome de la Tourette, conosciuta col film “I segreti di una città” e con l’insuperabile interprete Edward Norton).

Naturalmente al di là dei vari temi che infarciscono la storia, L’isola dimenticata è un libro fondamentalmente di avventura perché i protagonisti superano situazioni imprevedibili e rischiose, col naufragio che ne è un paradigma; è presente la lotta con le forze della natura (terremoti, alluvioni) e con le aberrazioni umane.

Il carattere narrativo che primeggia è la fabulazione arrembante che rende la trama un vortice continuo di avvicendamenti con l’incombenza che qualcosa stia per accadere.

Il romanzo è un bel congegno che crea emozioni, sia per le peripezie compiute dai protagonisti, sia per la tecnica di mettere i cattivi tutti da una parte e i buoni (ragazzi) dall’altra, per cui chi legge spera che questi ultimi si salvino.

A rendere viva la narrazione ci pensa sia la scelta della struttura dialogica incalzante, attraverso cui si snoda l’azione, sia il lessico immediato.

Così, per le tipologie umane incontrate, per il corso di sopravvivenza sperimentato sul campo, per la capacità di padroneggiare gli avvenimenti, per l’arguzia nel disvelare i falsi volti, il romanzo apre le porte ad un altrove pensato e agognato, nella fattispecie usato come misura della realtà, mostrando l’inappropriatezza di alcune scelte, le ragioni di problemi irrisolti, le cause dell’anaffettività.

Infine, emerge una sotterranea verità, celata dietro alle bizzarrie esistenziali: che la vita è una perenne battaglia al termine della quale la vittoria arride a chi non si arrende.

Bellissimo è il finale a sorpresa, con le parole di Isabella, in coda al romanzo, che sono un palese messaggio metatestuale: “Forse mi metterò a cercare anch’io la mia isola della Libertà”; come a dire, che ognuno nella vita deve avere una seconda chance, nel cercare un percorso che porti alla felicità, al di là degli errori, delle incomprensioni e degli stigma.

 

 

 

 

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