Senza voce di Loredana Frescura e Marco Tomatis, Raffaello, 2024

di Cosimo Rodia

 

Senza voce è un libro raggelante, di un realismo amaro, in cui il senso di ingiustizia, specialmente verso i minori, ci inchioda ad una responsabilità umana, mostrando come le ragioni dell’economia disattendano sentimenti e diritti inviolabili.

Loredana Frescura e Marco Tomatis preparano una cornice entro cui il nonno Gianni, che non parlava dalla fanciullezza, narra al nipote allettato per un incidente, l’origine del suo mutismo selettivo.

Dodicenne, alla metà degli anni Sessanta, egli parte coi genitori dal sud verso la Svizzera, dove i bambini non erano accettati; messo piede oltralpe, è scoperto dalla polizia e collocato ne “La casa della Speranza”, un orfanotrofio di frontiera, gestito dal clero con rigidi metodi educativi; la pena finisce quando i genitori lo riprendono e tornano al Sud; e anche qui Gianni subisce il dispiacere di non essere più parte integrante di quella comunità che aveva lasciato.

Quando i genitori tornano in Svizzera, escogitano il piano di tenersi il figlio nascosto nell’armadio e per Gianni inizia un periodo di reclusione, che per giustificarsela, immagina di essere un partigiano.

Dopo una serie di incidenti e discriminazioni, una mediatrice spinge Gianni a frequentare una scuola clandestina, dove conosce Rita, un’altra coetanea invisibile. Nuovamente scoperti, continua la fuga rocambolesca e la clandestinità. Così con Rita, Gianni decide di scappare a Milano, ma è riacciuffato dalla polizia e rispedito ne “La Casa della Speranza”. Da quel momento «le parole rimangono appese dietro le labbra e non escono»; drammaticamente il nonno confessa al nipote: «Nel mio cervello io ho tutte le parole che occorrono solo che non vogliono prendere forma del suono».

Il nonno Gianni non parlerà più e si farà capire, dalle persone che l’amano, con lo sguardo e con i gesti. La voce torna al vecchio Gianni solo per assistere il nipote, scegliendo quando e a chi far sentire la sua voce; egli è caduto, dunque, nel mutismo selettivo, che gli impedisce di esprimersi con l’uso della parola, pur sapendo parlare, a causa dell’isolamento prolungato, dell’ansia di essere scoperto, del dramma di non essere come gli altri e, principalmente, di non essere accettato.

Rispetto a questo dramma individuale, sibillinamente alla fine del romanzo, il nipote si pone il dubbio se al posto del nonno lui avrebbe mai perdonato i suoi genitori.

Gli adulti, i genitori, lo Stato, le leggi, le istituzioni educative, nel romanzo sono tutti coinvolti nel dipanare un dramma che nel libro è individuale, ma sappiamo essere stato un fenomeno collettivo, che molti conoscevano, ma lasciato colpevolmente sotto silenzio, sicuramente per via del ricatto occupazionale, in un periodo in cui il lavoro a sud mancava e si andava a vendere la forza delle braccia dove si sviluppavano le società opulente.

Un romanzo di infanzie violate, di violenze, di insensibilità educative in contesti dove vigeva l’arbitrio dell’educatore. Gli Autori hanno avuto il merito di compiere un reportage giornalistico, indagando sul territorio, ascoltando testimonianze, per cristallizzare la storia di Gianni, che per estensione è la storia di tanti ragazzi sfortunati chiusi nell’armadio.

È un libro sociale, un documento storico che mostra in filigrana la scuola italiana agli inizi degli anni Sessanta, le famiglie del Sud povere e senza futuro, le vessazioni dei Meridionali emigrati per lavoro, le discriminazioni subite dai “macaroni”, la conduzione di alcuni orfanatrofi, la scuola che ignorava l’inclusione, la ferrea vigilanza della polizia Svizzera…; insomma, ci troviamo di fronte ad un romanzo senza alcun elemento romanzesco; un documento umano, invece, di ciò che siamo stati, poco più di mezzo secolo addietro, con diritti violati, perché la democrazia era ancora una idea e i diritti inviolabili del Fanciullo ancora da sancire.

Vi è l’esatta, quasi giornalistica, riproduzione della realtà, con personaggi che si muovono secondo il carattere di ognuno e secondo le circostanze ambientali; il fine è quello di inchiodare il mondo degli adulti alla responsabilità morale, per una tragedia consumata nel silenzio e nell’accettazione di tutti, secondo la convinzione che gli ultimi, presi dalla necessità, sono sempre senza voce.

È un romanzo che mette al centro l’uomo e spinge a compiere una riflessione sia storica, sia sull’attuale livello di salvaguardia dei diritti umani, contro ragioni economicistiche o confini territoriali troppo rigidamente fissati. Non so, se gli Autori abbiano visto nella storia di Gianni, lo specchio di tanti minori clandestini non comunitari, abbandonati, braccati e strumenti della criminalità.

Ad ogni modo, Frescura e Tomatis sono stati bravi nell’affondare lo sguardo nel groviglio dei sentimenti di paura, nelle avvisaglie dell’amore, nel rapporto passato-presente-futuro, mostrando contraddizioni, ingiustizie, aberrazioni (Sono emblematici il passaggio della frontiera nel baule dell’auto; la fuga dalla polizia, gli sguardi torvi delle spie, l’orfanatrofio, la frattura curata in casa); e l’hanno fatto con una narrazione asciutta, paratattica, con stile rapido e concreto sia nel discorso indiretto sia nei dialoghi, descrivendo ambienti, ma in particolare personaggi che non hanno nulla di eroico, se non l’accettazione stoica di essere vessati da un mondo ancora lontano dal riconoscimento democratico dell’uguaglianza e della inviolabilità dell’infanzia.

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