Intervistiamo: Mario Di Matteo

di Maurizio De Giglio

 

l’ho conosciuto all’Istituto Professionale Colasanto di Andria. Eravamo colleghi ed io lo avvicinavo per chiedergli consigli su macchine fotografiche che avrei potuto acquistare. Non capivo se ne avesse piacere o se mi rispondesse per cortesia. Sapeva che avevo pubblicato dei libri e fu per questo che mi chiese di aiutarlo nella stesura del suo libro. Fu una vera sorpresa per me e non ci detti neanche peso. Invece il progetto lo ha realizzato con la sua consueta testardaggine e ne è venuto fuori un racconto dal titolo “Non l’abbiamo mai fatta grossa”.

È una storia avvenuta ai tempi in cui era studente in una scuola di Torino, l’Istituto Professionale Bodoni di Torino, l’unico in Italia, almeno alla fine degli anni ’70, ad avere un indirizzo di Fotografia. La passione era nata presto in Di Matteo da Barletta, città in cui era nato e decise di iscriversi, approfittando del fatto che già vivevano dei parenti a Torino. I problemi sono stati tanti; quello dell’ambientamento fu il più importante da superare. Subito mi colpì nell’esperienza di Mario la sua ostinata passione, che contagiò i suoi compagni di classe. Bastava già questo per renderla una storia interessante ed invece il destino volle aggiungerci un evento tragico: la morte del suo compagno di banco. Non voglio svelare troppo, ma posso solo aggiungere che è riuscito a fargli conseguire il diploma di Maturità post mortem, con il supporto della famiglia e dei suoi compagni di classe.

 

  1. Come mai a distanza di tanti anni non hai abbandonato l’idea di proporre l’assegnazione del diploma post mortem al tuo compagno di banco Piergiorgio Cavallotto, morto tragicamente in un incidente stradale?
Sai, io il mio diploma l’ho sempre tenuto esposto ben in vista, sia nei locali dello studio fotografico aperto subito dopo aver completato il servizio militare, sia nella stanza dei miei figli perché sono sempre stato orgoglioso del traguardo raggiunto con tanti sacrifici miei e dei miei genitori. Quel diploma ha un valore non solo formale cartaceo, ma rappresenta  l’impegno che ho sempre infuso e che ho cercato di insegnare ai miei figli, in definitiva il valore del sacrificio che ti permette di raggiungere i tuoi obiettivi e della premialità che ne consegue e quel diploma lo rappresenta appieno. Guardandolo ogni volta mi sono sempre chiesto perché la vita fosse stata così crudele con Piergiorgio e perché mai lui non dovesse fregiarsi di un titolo così esclusivo ed unico. Il desiderio di far si che anche lui potesse annoverarsi tra i Periti Industriali Fotografi lo ho sempre avuto, ma si è rafforzato ed è diventato imperativo dopo la disavventura sulla validità dello stesso ordita dalla dirigente della scuola di Bari nel 2014. Come poter dimenticare la sua apparizione in sogno nel momento di massimo sconforto della vicenda, consigliandomi di scrivere al Ministero; l’illuminazione fu la soluzione del problema, il Ministero rispose in tre giorni e pose fine alla vicenda e lì scatto la promessa che un giorno anche lui dovesse fregiarsi del Diploma di Perito Industriale Fotografo.

 

  1. Questo profondo sentimento d’amicizia da cosa fu determinato? Essendo arrivato a Torino da Barletta, fu l’unico ad accoglierti senza pregiudizi?
La fine degli anni 70 per noi “meridionali” al nord non sono stati felici; il boom economico alle porte dopo la crisi petrolifera ha rappresentato un flusso migratorio consistente, ricordo che entrare alla Fiat era di una facilità estrema, tanto che anche mio fratello Savino che mi ospitava fu attratto dalla chimera del posto fisso, difatti da panettiere nel 1979 divenne un dipendente Fiat nello stabilimento di Rivalta. Tra i ragazzi della mia età si sentiva a pelle la discriminazione palesata dai piemontesi veraci (anche dai figli dei meridionali nati in Piemonte) nei confronti dei meridionali appena arrivati. Piergiorgio è stato l’unico che istantaneamente non ha opposto barriere tra le due categorie di provenienza, sarà stata la sua formazione cattolica, ma è stato il mio lasciapassare per introdurmi nel gruppo classe.

 

3.Tutto è cominciato per la passione della fotografia. Raccontaci com’è nata e perché scegliesti Torino.

Tutti noi ragazzi nati negli anni 60 avevamo l’abitudine nel periodo estivo di cercarci un lavoro per imparare un mestiere. Ricordo l’estate della fine della 5A elementare; ho cominciato come garzone presso un parente che aveva un ingrosso/dettaglio di quello che oggi rappresenta il “TUTTO MILLE” e l’anno successivo presso un negozio di Elettricista e rivenditore di bombole di gas. La svolta arriva l’estate del 1973 quando, in compagnia di mio padre, ci siamo avventurati per i negozi del centro dove dopo vari dinieghi ricevuti da negozi di abbigliamento, siamo arrivati in Corso Garibaldi, al civico 154, presso lo STUDIO FOTOGRAFICO CALVARESI; ci accoglie il titolare Vincenzo Calvaresi meglio conosciuto come Nino Calvaresi, ma che tutti i dipendenti chiamavano “Signor Nino”, il quale titubante ci dice <<fallo venire in prova per una settimana>>. La settimana non si è mai interrotta, non solo nel periodo estivo ma anche durante l’annoscolastico. Dopo aver conseguito la 3A media ho intrapreso gli studi presso l’ITIS della mia città, che aveva la specializzazione in elettronica, prima della conclusione del biennio ho cominciato ad informarmi se esistesse una scuola pubblica di fotografia, ma tutti mi dicevano che non esisteva, finché non ho avuto l’idea di scrivere alla rubrica di FAMIGLIA CRISTIANA, giornale che conoscevo benissimo, sia perché frequentavo la mia parrocchia da chierichetto sia perché era il nostro giornale di famiglia. Con grande sorpresa dopo qualche settimana mi arriva la lettera di risposta che mi informa che l’unica scuola pubblica di fotografia esistente in Italia era il Bodoni di Torino ed era in un Istituto Tecnico Industriale. Quindi avrei potuto continuare gli studi senza perdere nessun anno. Non avrei mai immaginato che i miei genitori, guardando al futuro del proprio figlio, avessero acconsentito che un allora quattordicenne potesse trasferirsi in un contesto completamente diverso e se vogliamo anche pericolosissimo quale quello torinese.

 

  1. Che percezione avevi della situazione politica degli anni 70? Voglio ricordare che avevi 14 anni?
Vivendo a Barletta, sentivo le notizie sulle Brigate rosse e degli attentati ai treni e forse sarà stato il fatto di lavorare in uno studio fotografico, che operava anche come reporter per conto della Gazzetta del Mezzogiorno e che mi portava ad avere un atteggiamento distaccato dalla realtà. Giunto a Torino ed inserito in un gruppo classe che ha fatto dell’amicizia il collante di vita, non entrando mai in contesti politici, ma vivendo con la spensieratezza tipica dell’età, vivevo l’esperienza di andare a scuola con il tram ed incontrare a bordo poliziotti armati con i mitra, che ispezionavano il mezzo oppure assistere a cariche della Celere nel centro di Torino, mentre noi eravamo intenti a consumare il nostro panino o giocare a biliardo nella pausa tra le ore mattutine ed il rientro per le ore di laboratorio pomeridiane. Beh si, noi abbiamo studiato parecchio all’epoca, le ore di lezione settimanali erano 42. Se tutto questo non è stato un trauma per un quattordicenne meridionale catapultato nella realtà torinese degli anni 70 e tra l’altro vivendo senza soldi in tasca e senza il parafulmine dei genitori, lo devo grazie ai miei compagni di classe ed alla presenza rassicurante di mio fratello Savino ed ai parenti di mio padre che per la quasi totalità vivevano a Torino.

 

  1. Il rischio di non essere accettato in quella realtà non ti ha fermato. Mi ha colpito la tua determinazione. Non la vedo nei nostri giovani. Sei un docente, secondo te da cosa deriva lo sconforto dei ragazzi per il futuro?
Il traguardo, ben chiaro in mente, di diventare fotografo la consapevolezza dei sacrifici che i miei genitori stessero affrontando (mio padre era da poco andato in pensione con 53.000 Lire al mese di pensione), l’orgoglio di poter tornare a Barletta con in tasca un diploma unico in Italia, la consapevolezza di poter sfondare nel mio settore avviando una attività di fotografo improntata alla innovazione, ha fatto si che tutte le umiliazioni iniziali sparissero. I giovani della generazione attuale, non tutti fortunatamente, scontano a mio parere i troppi sì pronunciati dai genitori nei contesti che non sono quelli formativi. Da docente mi capita di assistere ai sì detti ai propri figli in tutte le situazioni, anche di fronte ad evidenti e palesi errori fatti. Non sono abituati al sacrificio molti dei quattordicenni di oggi; il sacrificio non sanno cosa vuol dire, anche per colpa dei genitori che tendenzialmente sono portati a ripetere:“Il benessere che non ho vissuto io lo deve vivere mio figlio”. Niente di più sbagliato! La situazione di benessere  va costruita assieme, supportando ed incentivando i propri figli alla crescita consapevole.

 

  1. Raccontaci dell’esperienza in televisione nella trasmissione “In altre parole” di Massimo Gramellini su La7
Ricevere la telefonata dalla redazione della trasmissione “IN ALTRE PAROLE”, oltre che sorprendermi, mi fatto vivere un sogno. Guardando la trasmissione che già conoscevo ho sempre pensato che gli ospiti fossero informati preventivamente della scaletta e conoscessero approfondimenti e temi di cui trattavano. Con me tutto questo non è avvenuto: trasmissione in diretta, la redazione che mi ha tenuto nascosto il contenuto dell’incontro con Massimo Gramellini. Sapevo soltanto che sarei stato suo ospite e che il tema era quello  dell’amicizia e che la notizia della concessione del diploma post mortem a 44 anni di distanza lo aveva incuriosito. Assistendo alla trasmissione da dietro le quinte, quando è arrivato il momento della lettera della Buonanotte ed ho sentito Gramellini leggere la lettera, che lui aveva personalmente redatto, ho capito che era arrivato il mio turno. L’emozione mi ha invaso e le lacrime che scendevano copiose hanno costretto il team del trucco e parrucco a rimettermi a posto in pochi istanti. Dalla registrazione traspare tutta l’emozione del momento, Massimo è stato di una umanità infinita; lui con tutta la redazione mi ha supportato e hanno fatto sì che la spontaneità e genuinità potesse essere di esempio.

Non posso dimenticare l’incontro dietro le quinte con Roberto Vecchioni, maestro di vita che umilmente mi ha detto “Bravo Complimenti per l’iniziativa e la caparbietà”; il giornalista e fotografo Mario Calabresi e la simpaticissima Veronica Pivetti, che mi hanno accolto nel salottino dietro le quinte come uno di loro, chiedendomi notizie sulla fotografia e sul valore dell’amicizia.

 

Grazie Grazie Grazie

Grazie a te, che ci hai dato un esempio di solidarietà e amicizia raro in questo periodo storico che stiamo vivendo.

Stavolta l’avete fatta grossa davvero!

 

(Articolo già apparso su www.ilpensieromediterraneo.it )

 

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