Prima che ti svegli di Angelo Mellone, Carta Canta, 2024
di Cosimo Rodia
Il nuovo romanzo del giornalista tarantino Angelo Mellone si snoda tra due personaggi metonimici; non sono loro a parlare, anzi i protagonisti sembrano strumentali a dar voce ai sentimenti, quelli più nascosti, indicibili, conservati (per pudicizia?) in un privato inaccessibile. È un romanzo che ha già la struttura di un copione teatrale; i protagonisti sono due, D. e P., senza tempo, senza luogo, senza identità precisa, e non v’è dialogo, perché alternativamente ognuno parla a se stesso, in una rappresentazione plastica di sentimenti ora condivisi, ora anelati. Manca l’azione e la progettualità dei sentimenti. È un rapporto d’amore clandestino, i cui protagonisti decidono, sin dal primo incontro, di dargli una durata, ovvero, tutto si sarebbe concluso, di comune accordo, un 12 marzo di un anno prestabilito.
Eppure, dal primo incontro, essi si rigiravano in “quel letto così grande che diventava minuscolo solo quando facevano l’amore” e così fino al lontanissimo giorno, in cui avevano deciso che la loro relazione si sarebbe biodegradata. Un rapporto d’amore a tempo determinato, non può essere produttivo, perché gli manca il futuro.
In un continuo flusso di coscienza, i due protagonisti si mettono a nudo, davanti allo specchio dell’anima, misurando il sè e il proprio rapporto con gli altri.
Si può essere Io, senza interagire con un tu, creando i presupposti di un Noi?
Probabilmente, per via della razionalizzazione del quotidiano, ci siamo abituati ad un mascheramento dei motivi profondi. Mellone, allora, ha la capacità di mostrare l’ambivalenza tra le immagini imposte dalle regole educativo-sociali e il mondo interiore fatto di desideri, slanci, egoismi, eros.
Mellone opera uno svelamento dell’inganno operato dall’uomo verso se stesso, col suo mascheramento, affinchè prenda coscienza delle distorsioni e degli inceppamenti della macchina psicologica.
Siamo di fronte ad un romanzo tangente sia al teatro sia la poesia, che ruota intorno alle vicende interiori dei due personaggi, che anziché simmetrici, sembrano simili nell’elaborare pensieri, sensazioni, ricordi, nell’intersecare presente, passato, futuro, ricordi e speranze. Come si diceva, una sorta di flusso di coscienza, ovvero quel flusso di sensazioni e sentimenti, che sostanziano la realtà interiore dei protagonisti. In questo finto dialogo, in realtà due grandi monologhi, si scende nella parte oscura di ognuno dei due, nel groviglio delle attese, si manifesta il complesso mascherarsi dell’uomo a se stesso: il personaggio D. decide di recitare la parte dell’uomo austero, che non si abbandona ai sentimentalismi (P. dice: Mi chiedo, un rapporto d’amore – sei allergico a questa definizione: “rapporto d’amore”. Professore, come lo vorresti chiamare? […] nonostante la tua sbruffonaggine e la perorazione dell’impassibilità – o, come la chiami tu, della “media intensità emotiva”[…] chi può meritare l’anima dell’esimio professore?”)
Eppure D. a suo modo ama e vorrebbe disattendere la data di scadenza, ammorbidendo la sua rigorosità; allora, diventa chiaro il fine Mellone, ovvero una sottile critica alla vita fatta di apparenze, lontana dall’autenticità!
Che rimane alla fine, nei due protagonisti, degli anni trascorsi insieme, quando sapevano di aver premeditatamente finto? Non è forse una grande illusione, costruita per tentare di delineare il senso di un ideale comune, capace di unire due solitudini e soddisfare una profonda esigenza di solidarietà, che il mondo reale tende a cancellare?
P. sembrerebbe soddisfatta della sua vita professionale, del suo essere mamma, delle relazioni amicali, di un amante segreto; in realtà, l’amore, nella sua esperienza di vita, non è reale; la clandestinità accettata ha attribuito al sentimento d’amore un tono di irrealtà e d’illusione. Vi è evidentemente un ambiguo rapporto di essere nel mondo.
Il problema è di autenticità che confligge con i disvalori collegati alla falsità (i due si parlano mentre alternativamente uno dorme; la verità è guardarsi negli occhi, ma D. e P. lo glissano). E questa individuale inadeguatezza psicologica è mistificata dalla maschera che si decide di indossare (D. decide di non proferire mai: “Ti amo”). E questo non è che l’atteggiamento di un uomo inetto, incapace di essere se stesso (ne è vero il fatto che quando poteva, D. non ha scelto di uscire dalla clandestinità). Ma dopo una feconda autocoscienza, D. dice: “Sono stanco di recitare un personaggio che ha preso la forma di un racconto dal finale scontato”.
Una prova originale, quella di Mellone, anche per il tratto stilistico, che è prosa tangente alla poesia, non solo per l’aspetto formale dell’andare sovente a capo, ma anche per l’uso frequente di immagini e similitudine, che allargano il significato delle parole, facilitando le associazioni che il suono evoca, dando a ciò che non si vede, ovvero all’ineffabile, un segno tangibile.
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