Intervistiamo: Alessandro Zaffarano

di Cosimo Rodia

 

Alessandro Zaffarano è medico specializzato in Psichiatria e Psicoterapia. Nel 1975, insieme a Raffaele Nigro e Daniele Giancane, dà vita al Gruppo “Interventi Culturali”, per i cui tipi pubblica: “Condizione umana”, 1975, e “Canzone per Caino”, 1977. Per motivi di lavoro si trasferisce a Lecce nel 1980.

Torna alla poesia dopo un’“apparente trascuratezza” nel 2022 con la silloge: “Diario di un Commosso Viaggiatore”, Milella editrice.

 

D. Allora Alessandro, dopo 45 anni è cambiata la Poesia?

R. Sicuramente è cambiato il numero dei praticanti. Enorme. Sembra un frastuono in cui è difficile distinguere le singole voci con il rischio concreto che quelle più significative si perdano o non emergano.

Per quel che riguarda i contenuti, o i generi, sembra del tutto scomparsa dall’orizzonte la poesia sociale e politica. Lo sguardo volge altrove, in territori meno conflittuali, spesso consolatori. Mi sembra, poi, che ci sia un risveglio della poesia erotica. Vedremo che sviluppi potrà avere.

 

D. Chi fur li maggior tui?

R. Sicuramente Rocco Scotellaro al quale più d’uno ha avvicinato la mia scrittura, ma le vere ascendenze le ritrovo nei classici greci e latini, nella densità delle loro parole e nella contemporanea leggerezza. Nel corso degli ultimi anni non ho avuto modo purtroppo di leggere la poesia contemporanea, se non occasionalmente e devo dire che non sono stato preso.

 

D. La Poesia ha una funzione sociale o personale?

R. È tipico di quest’epoca della “tecnica” – come dice Umberto Galimberti – voler attribuire ad ogni cosa una funzione – il famoso luogo comune “a che serve?” – e, ove non se ne ravvisi una immediatamente utilizzabile, la cosa viene scartata. La poesia è quello che è intrinsecamente, cioè un modo di dire, in forma naturalmente diversa dagli altri modi di esprimersi; un modo dire che viaggia su un binario inverso, dal cuore al cervello e non viceversa. Ciò che la poesia può determinare dipende sempre ed esclusivamente dal lettore, dalle risonanze emotive che percepisce e dalle azioni che, eventualmente, decide di compire come loro conseguenza.

 

D. Diario di un Commosso Viaggiatore contiene poesie che vanno dal ’77 al 2022. Sono legate tra loro? In verità le hai divise per sezioni; chiedo, allora, ci sono differenze? Se sì, diciamo quali?

R. Sono necessariamente legate in quanto tappe di un viaggio ancora in corso, anche se fanno riferimento, ovviamente, a tempi e luoghi dell’anima diversi. La divisione in sezioni era in qualche modo dovuta non solo per l’epoca di riferimento di ciascuna di esse, ma anche per il linguaggio e la scrittura che li caratterizza. Le differenze più evidenti sono tra Parol/Azione e le due sezioni successive. Parol/azione è la sezione più politica, di contestazione del potere e del tentativo del disvelamento delle forme subdole con le quali esercitava – ed ancora esercita – il controllo o l’orientamento delle persone, il tutto in una forma quasi teatralizzata alla Dario Fo, come ha scritto Raffaele Nigro.

Tutt’altra scrittura e finalità possiede Canto di Idareo; che è una sezione a forte impronta personale, ma con un occhio anche al nuovo contesto in cui sono arrivato; questa sezione, infatti, coincide con il periodo della mia emigrazione in Salento. La scrittura mostra il passaggio dallo sperimentalismo – di cui ancora viene conservata qualche traccia – ad una scrittura piana, ma non piatta, che cerca di non interferire con i temi che vengono progressivamente proposti: solitudine, amore, spaesamento, rabbia, un sud con ancora forti connotati contadini riscontrabili nei piccoli comuni del Salento.

Il titolo della terza sezione, il Viaggiatore di anime, richiama in maniera non equivoca quella che è l’essenza del lavoro psicoterapeutico: entrare, attraversare, conoscere e poi cercare di dire / far dire i sentimenti, le vite, le storie conosciute, ma questo è anche un viaggio interiore sia come professionista che come persona che prende atto del tempo che passa, delle trasformazioni del corpo e delle relazioni, del distacco che si incomincia ad operare dalle cose senza alcun rimpianto o nostalgia.

 

D. Le poesie di Viaggiatore di anime sono differenti e si caricano di solitudine ed afasia. Perché scrivi?

R. Sono in molti ad aver letto in questa parte, ma anche in Canto di Idareo, la solitudine, ma a ben guardare essa non è una lamentazione di qualcosa che manca, ma la descrizione di un processo attivo di sottrazione, di un ritirarmi. Se vogliamo chiamarla solitudine facciamolo pure, ma non è una solitudine triste. Ed anche l’afasia che tu citi non è proprio tale, ma cerco di rappresentare la difficoltà di dire, di raccontare l’odierna tendenza a sloganizzare anche i concetti più complessi.

Per venire all’altra parte della tua domanda, io scrivo per dire. Per dire a me – guardare da fuori le cose di dentro ti consente di dar loro un nome, di sapere come sono fatte e come puoi maneggiarle – e di dire a chi vuole leggermi. Scrivo anche per dare voce e rappresentazione alle cose imperfette – persone, amori, situazioni – che l’attuale organizzazione sociale allontana come scarti e rimuove.

 

D. Alla fine la vita va accettata. Quali sono i sostegni in questo viaggio?

R. Il viaggio è stato duro ed impervio, ma se non avessi avuto chiara la mèta / le mete, sarebbe stato probabilmente tutto più difficile e dal risultato incerto. Uno dei sostegni è stato quello di aver saputo dare ad ogni obiettivo il suo tempo di realizzazione, ma sovrapponendolo ad altri, riconoscere ad ogni cosa – e ad ognuno, soprattutto, il suo tempo ed il suo spazio. Non ricordo persone che mi abbiano sostenuto anche se questo non vuol dire che non ci siano state persone a me molto vicine.

Si certo, la vita va accettata – come si potrebbe fare, altrimenti? – ma ritengo che l’accettazione non possa essere mai passiva, pena il rischio di rimanere schiacciati. L’accettazione vuol dire “fare posto”, dentro di te anche a quello che non vorresti. Basta pensare al dolore: negarlo non lo rende più leggero.

 

D. Un auspicio che sia anche un saluto.

R. L’auspicio è che il libro venga letto. Non importa quanti saranno i lettori. I libri sono fatti per essere letti. Buona lettura

 

 

 

 

 

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