Non ci posso credere! – Racconti e misteri dell’Altrovedi Cosimo Rodia, Progedit
di Daniele Giancane
(Università di Bari)
Cosimo Rodia è un autore ormai consolidato e noto: la sua intensa produzione, di poesia, narrativa,
fiabistica, didattica ha – d’altra parte – interessato anche il mondo accademico: sulla sua opera (anche di
divulgatore e animatore culturale) è stata discussa una tesi di laurea all’Università di Bari.
Uno degli itinerari fondamentali di questo intellettuale di Carosino (Taranto) è certamente il recupero di
figure, valori, stilemi della cultura popolare. Non per nulla ha pubblicato testi sulle fiabe salentine e
racconti di vita della civiltà contadina.
Ora, questo nuovo lavoro, “Non ci posso credere! – Racconti e misteri dell’Altrove” prosegue l’iter su
accennato, ma ne specifica una peculiare connotazione: l’individuazione di racconti popolari in cui domina
il senso del magico. In verità, queste storie si situano più precisamente in una zona di confine tra
racconto popolare, magico, parapsicologico, fiabesco. In quell’ ‘altrove’ scarsamente considerato dalla
critica o, comunque, considerato marginale rispetto a un’interpretazione sociologica o antropologica.
Rodia, invece, affronta l’altrove come costitutivo della cultura popolare, come nucleo fondamentale della
narrazione. Senza questo elemento (dagli gnomi alle apparizioni), il racconto del popolo risulterebbe
monco. D’altra parte, la ‘visione del mondo’ della civiltà contadina (e che in fondo, sotto altre forme, vive
ancor oggi) non è ‘altro’ dalla realtà, ma realtà essa stessa (come avverte Edgar Morin).
L’essere umano è fatto di razionalità, ma anche di irrazionale, di mistico, di misterioso, di segreto. La vita
non è tutta spiegabile con la ragione, molto ci sfugge e appartiene ad altre dimensioni.
Del resto – come ci avvertono diversi studiosi (citeremo Anita Seppilli) la magia non è falsità, ma è solo un
modo di interpretare il reale assai diverso da quello scientifico.
Ecco che ‘Non ci posso credere!’ è una cascata di storie magiche, da “Il mugnaio e gli gnomi”, dove
si crea un’alleanza benefica tra un mugnaio e gli gnomi a “Il giogo dei buoi” che impedisce una morte
serena ad una vecchina; da “La bambina ‘nfascinata’” in cui l’Autore ci riporta al mondo delle fascinazioni
(la fattura, il malocchio) a “Un bacio lungamente atteso”.
Con quest’ultimo racconto ci indirizziamo verso uno degli ‘archetipi’ della narrazione rodiana:
la comunicazione tra mondo dei vivi e mondo dei defunti. In effetti, nella civiltà contadina, i due
mondi convivono (la Befana rappresenta i defunti che vengono a trovare i bambini). Non c’è
discontinuità, come ai giorni nostri, in cui abbiamo desacralizzato il nostro rapporto con la vita ed anzi
tendiamo a eliminare il pensiero della morte.
E come si può comunicare fra vivi e morti? Soprattutto attraverso i sogni.
In “Un bacio lungamente atteso” un bambino – defunto anni prima – appare a una donna, con la
richiesta di portare un bacio alla mamma ancora vivente; ne “La casa maledetta” di nuovo appare uno
spirito inquieto.
Le apparizioni – qui – sono continue: da quella de “La strada della morte” a “La lunga notte della vecchina”.
Pare quasi di sentire il ‘ventofumo’ che guarisce un ammalato (in “Giovanni il miracolato”).
Naturalmente, qual è l’animale che assomma mistero e diabolicità? Il gatto, che nelle culture tradizionali in
effetti è sempre stato visto come uno spirito demonico ed ancora – ai nostri tempi – è visto come animale
libero, indipendente, misterioso (Pablo Neruda scrive – in una splendida poesia – che tutto si può capire al
mondo, meno che il gatto). In questi racconti il gatto appare più volte: “Il gatto nero” (che ovviamente
porta una sfortuna tremenda), “Una notte al cimitero” e c’è addirittura “Un gatto assassino” – nell’ultima parte
del lavoro, che include alcuni racconti ‘horror’ con una vena un po’ alla Edgar Allan Poe.
Diverse storie hanno a che fare coi cimiteri, come “Una notte al cimitero” dove il terrore prende dei ragazzi
che sono entrati lì dentro per gioco e osservano che tutte le tombe riportano lo stesso nome: Francesco
Pietrarossa.
Si intrecciano racconti che conducono al lieto fine (e specie quando entra in campo la ‘magia bianca’
che spesso risolve i problemi) ad altri che si concludono in maniera tragica (vedi “Una bravata di due
ragazzi”), ma sempre le brevi storie – perché si tratta di racconti che si racchiudono in qualche pagina – avvincono
per il linguaggio fresco e immediato, come di lingua parlata.
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