Tecnica e Progetto di vita
di Sandro Marano
«Uno degli argomenti che nei prossimi anni sarà dibattuto con maggior vivacità è quello relativo al significato, ai vantaggi, ai danni e ai limiti della Tecnica. Ho sempre ritenuto che la missione dello scrittore consista nel prevedere con largo margine d’anticipo ciò che diventa problema qualche anno più tardi e nel presentare tempestivamente ai suoi lettori, prima che il dibattito sorga, idee chiare sulla questione».
È questo l’incipit d’un breve saggio del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset pubblicato nel 1933 col titolo Meditazione sulla tecnica. E non furono pochi nella prima metà del secolo scorso, stante il prodigioso sviluppo tecnologico in corso, i filosofi e gli scrittori che si occuparono della questione della tecnica e del suo significato per l’uomo. Ricordiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, il romanzo Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley, al quale nel 1958 seguirono importanti riflessioni racchiuse nel saggio Ritorno al Mondo nuovo, L’uomo e la macchina (1931) di Osvald Spengler, L’uomo e la tecnica (1934) di Nikolaj Berdiaev e La questione della tecnica, (1953) di Martin Heidegger, una celebre conferenza in cui confluiscono riflessioni e spunti già presenti in modo sotterraneo in tutta la sua opera a cominciare da Essere e tempo (1927).
Meditazione sulla tecnica di Ortega y Gasset ha più di un motivo per avere un posto di rilievo in una ideale biblioteca ecologista, al di là della lucidità dell’analisi e dello stile accattivante e piano. È infatti una critica della “funesta” idea di progresso e un tentativo di spiegare il disagio che la tecnica oggi induce nell’uomo sulla base della netta distinzione tra tecnica e progetto di vita.
Il punto di partenza dell’analisi di Ortega è che non c’è uomo senza tecnica. La tecnica si può definire in generale «come la riforma della natura da parte dell’uomo in vista del soddisfacimento delle sue necessità». È l’insieme degli atti che modificano e cercano di migliorare la circostanza o la natura in cui l’uomo si trova. Infatti, se per la pietra «l’esistenza è già data bell’e fatta» e «non deve lottare per essere ciò che è: pietra nel paesaggio». Per l’uomo invece «esistere significa invece dover combattere incessantemente con le difficoltà poste da ciò che gli sta intorno».
La meditazione sulla tecnica ci conduce senza volerlo allo strano mistero dell’essere dell’uomo: «L’essere dell’uomo e l’essere della natura non coincidono perfettamente. (…) la sua metà extranaturale non è subito e senz’altro realizzata, ma consiste intanto in una mera pretesa d’essere, in un progetto di vita».
Per questo all’uomo non basta stare al mondo, come accade per gli altri enti, ma vuole starci bene. Di qui la tesi di Ortega, che può suonare paradossale, secondo cui «il benessere e non l’essere è per l’uomo la necessità fondamentale». La vita dell’uomo, osserva il pensatore spagnolo, non può ridursi a un semplice stare, ma significa benessere.
La tecnica richiama dunque l’idea di benessere. Ma cosa s’intende per benessere? Per Gesù era veramente necessario quello che faceva Maria e non Marta, la vera tecnica era Maria e non Marta. Il benessere è qualcosa che varia da individuo a individuo, da cultura a cultura, da epoca ad epoca. Esso dipende dal progetto di vita che ogni uomo si propone e cerca di realizzare. O, in altri termini, dalla sua visione del mondo. «Evidentemente il mondo è diverso per un commerciante e per un poeta: dove questi si placa, quello nuota a volontà; ciò che ripugna al primo, rallegra il secondo».
Se la tecnica è per l’uomo uno strumento necessario, non spetta però alla tecnica definire il progetto. Il progetto di vita è pre-tecnico. Il tecnico ha «il compito d’inventare i procedimenti più semplici e sicuri per soddisfare le necessità [dell’uomo], ma esse pure sono un’invenzione, sono ciò che in ciascuna epoca l’uomo, un popolo o un individuo, hanno la pretesa di essere». E quale tipo d’uomo può definire un progetto di vita? il poeta? il filosofo? il fondatore d’una religione? il politico? Ortega risponde che «è sufficiente riconoscere che il tecnico li presuppone e che questo implica una differenza di rango che c’è da sempre e contro cui è inutile protestare». E certamente «non è un caso che la tecnica per antonomasia, la piena maturità della tecnica, abbia avuto inizio nel 1600, quando l’uomo ha teoricamente visto il mondo come una macchina: La tecnica moderna è nata con Galileo, Cartesio e Huygens, insomma con i creatori dell’interpretazione meccanica dell’universo».
Dalla variabilità dell’idea di benessere nel tempo consegue la falsità dell’idea oggi dominante di progresso, intesa come crescita quantitativa: «essa presuppone che l’uomo abbia voluto, voglia e vorrà sempre le stesse cose (…). Ma la verità è proprio l’opposto: l’idea della vita, il profilo del benessere si sono trasformati innumerevoli volta, in alcune occasioni così radicalmente che i cosiddetti progressi tecnici venivano abbandonati e la loro traccia perduta (…). Il fatto che oggi sentiamo all’eccesso l’affanno dell’invenzione, non deve farci supporre che sia stato sempre così. Al contrario l’umanità ha provato di solito un misterioso terrore cosmico verso le scoperte, come se in queste, unitamente ai loro benefici, fosse latente un terribile pericolo. Nel bel mezzo del nostro entusiasmo per le invenzioni tecniche, non cominciamo forse a sentire qualcosa di simile?».
Oggi assistiamo a un generale disorientamento. Non constatiamo forse – con sgomento – la progressiva e vertiginosa sostituzione d’un paesaggio artificiale (tecnosfera) rispetto ad uno naturale (biosfera) con tutte le conseguenze nocive che questo comporta?
Qual è il tipo d’uomo dominante nella civiltà industriale? Lontano dal sacro e dalla natura, succubo di potenti forze economiche a livello globale, frastornato dalla tecnica, l’uomo d’oggi non sa più quale sia il suo progetto di vita.
«L’uomo si trova oggi, nel suo intimo, spaventato dalla consapevolezza della sua costitutiva mancanza di limite. E questo forse contribuisce a provocare una perdita dì identità. Infatti trovandosi in generale nella condizione d’essere tutto ciò che può immaginare, l’essere umano non sa chi sia effettivamente (…). La tecnica, apparendo da parte sua come una capacità in linea di massima illimitata, fa sì che la vita dell’uomo, costretto a vivere di fede nella tecnica e solo di essa, si svuoti, perché essere tecnico e soltanto tecnico significa (…) non essere nulla di determinato. La tecnica non è in grado di determinare il contenuto della vita. Ecco perché gli anni in cui viviamo, i più intensamente tecnici che ci siano nella storia umana, sono da annoverare fra quelli più vuoti».
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