Il maestro che promise il mare (tit. originale: El Mestre Que Va Prometre El Mar)

Regia: Patricia Font

Con: E. Auquer, L. Costa, L. Gavasa, R. Agirre, M. Taboada

Spagna, 2023. Durata: 105’

 

di Italo Spada

 

Occhio alla prima sequenza. Non prendete come inutile avvertimento questa ben nota regola di regia, finalizzata a catturare immediatamente l’attenzione degli spettatori. Il consiglio nasce dal fatto che ne “Il maestro che promise il mare”, primo lungometraggio della regista spagnola Patricia Font, l’incipit è preziosa pista di lettura.

Cerchiamo di esplicitare meglio.

Il film si apre sul lavoro di anonimi ricercatori che, con meticolosa cura archeologica, stanno tirando fuori dalle macerie e dal fango occhiali, pettini, cinte, orologi, ossa, scheletri. Non sappiamo ancora che si tratta di una fossa comune risalente all’epoca della Guerra Civile spagnola, ma le immagini suggeriscono già che non assisteremo di certo a qualcosa di distensivo. La conferma arriva di sequenza in sequenza, quando l’intreccio di personaggi, date e luoghi, indirizza in tre “direzioni” (la famiglia, la scuola, la storia) e si fa strada la convinzione che quello scavare va inteso anche come sinonimo di recuperare, trarre, non dimenticare.

A voler recuperare il passato è Arianna, una giovane donna intenzionata a rintracciare, dopo settantacinque anni, notizie del bisnonno, vittima del regime franchista. La coltre del tempo, l’incuria, la  voglia dei sopravvissuti di archiviare per sempre i brutti tempi, non le faciliteranno le ricerche, ma quello che per gli altri è scarso bottino – una vecchia foto, un libro di appunti, i nomi e le frasi dei compagni di scuola del nonno Carlos, la commozione provocata dal ricordo – per lei sarà tesoro da custodire nello scrigno degli affetti.

Da oggi a ieri; da Arianna al maestro che ospitò a casa sua l’adolescente Carlos.

Correva l’anno 1935. Il giovane Antonio Benaiges accetta l’incarico di maestro di una pluriclasse e da Terragona si trasferisce a Bañuelos de Bureba, un paesino vicino Burgos. La casa in cui si stabilisce e l’aula dove confluiranno alunni dagli 8 ai 12 anni sono mal ridotte, ma Antonio si industria a renderle subito accoglienti. Convinto seguace della validità didattica del metodo naturale elaborato dal visionario pedagogista francese Célestin Freinet, dà priorità alla partecipazione attiva degli alunni e trasforma le ore di studio in momenti piacevoli e distensivi. «I bambini – dice – devono essere soprattutto bambini.» Ovvero: scavare per educere, tirare fuori quello che hanno dentro.

Le sue novità metodologiche, pur accolte con entusiasmo dai diretti interessati, vengono interpretate da alcuni genitori analfabeti e dalle autorità paesane (sindaco e parroco, in primis) come idee rivoluzionarie in aperto contrasto con la tradizione e con le disposizioni governative del momento. La critica si estende persino all’utilizzo della “tipografia in classe”, finalizzata a facilitare l’apprendimento della scrittura, e alla proposta di organizzare una gita scolastica per far vedere ai bambini quello che non hanno mai visto: il mare. Ammonizioni, ispezioni e divieti diventano lezione punitiva da impartire pubblicamente a chi osa opporsi al regime. Libri e oggetti finiscono al rogo e Antonio Benaiges, dichiarato “pericoloso maestro”, viene sequestrato, torturato e condannato a morte senza processo e senza appello.

Per collegare le due storie ambientate in epoche diverse, Patricia Font non utilizza flashback e dissolvenze, ma stacchi netti, quasi a voler suggerire l’attualità di ciò che  non va seppellito nella fossa dell’oblio. In altre parole: scavare per non dimenticare. La foto sbiadita del gruppo classe e il libro con le note dei bambini non sono invenzioni di regia; Antonio Benaiges è esistito, ha realmente promesso ai suoi alunni di portarli in gita per vedere il mare, è stato barbaramente giustiziato a Briviesca e quello che è successo deve servire da monito. Invece di svuotarsi, l’aula di Bañuelos de Bureba si riempie di alunni di ogni età e sale in cattedra un’altra Maestra: la Storia. Le sue lezioni  dovrebbero essere di perenne attualità, ma basta leggere i quotidiani e vedere la TV per fare un lungo elenco di moderni alunni “asini” da bocciare con una sfilza di zeri.

A rinfrescare la memoria ben venga, allora, un film come questo che richiama, di certo non casualmente, due capolavori di François Truffaut:  Fahrenheit 451 – dove i libri sono considerati, da chi detiene il potere dell’insegnamento, nocivi e vanno bruciati nella pubblica piazza – e la sequenza finale de I 400 colpi, con il bambino protagonista (Antoine, anche lui) che fugge dal riformatorio e corre a vedere (ancora il caso?) quel mare che non aveva mai visto.

Se l’inizio di un racconto ha il compito di catturare l’attenzione, la conclusione ha quello di riassumere, invitare alla riflessione personale, lasciare un messaggio. Nel nostro caso, dopo avere visto la bambina di Arianna correre felice in riva al mare e prima dello scorrere dei titoli di coda, ecco un’altra serie di inquadrature. La parentesi aperta all’inizio si chiude con il ritrovamento e l’esposizione di altri reperti: foto, diari, banchi e oggetti semidistrutti, muri screpolati, lapidi, la lettera di denuncia per la condotta sovversiva del maestro, la proposta della Commissione Depuratrice, la copertina del libro “Il mare – Visto dai bambini”.

Difficile immaginare quello che avrebbero scritto i bambini di Antonio Benaiges se quella sua promessa si fosse concretizzata. Forse avrebbero detto con parole loro che «Nel mare non c’è passato, presente o futuro, solo pace» (Jacques Cousteau); che «Il mare è come una grande biblioteca, ricca di storie da scoprire» (detto svedese); che «Il mare non ha paese ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare» (Giovanni Verga)…

Forse. Ci piace fantasticare, però, quello che, su suggerimento di Alda Merini, avrebbero potuto non scrivere, ma fare: «Mettere la paura dentro le conchiglie e il rumore del mare dentro i cuscini.»

 

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