Le ‘mie’ sette Valli di Daniele Giancane, Tabula fati, 2024

di Cosimo Rodia

 

Una poesia che contorce, sgomenta, annebbia, rischiara quella di Daniele Giancane col suo ultimo Le ‘mie’ sette Valli. Una poesia che tende a svelare l’Essere, con uno sforzo ontologico nei limiti della finitezza umana; un tentativo di indicare delle strade di salvezza, oltre il transeunte, oltre il principio di piacere o del gusto del potere, che sono aspetti umani destituiti di universalità; così, Giancane cerca la verità che interessa l’esistenza reale, agganciata a valori assoluti riconoscibili, riconosciuti e invariabili.

E quali sarebbero? Propone una sorta di tavola di valori evidenti, non barattabili con le categorie che interessano l’uomo solo nella contingenza: denaro, successo, dominio…, ovvero beni materiali a tempo determinato, che lasciano di lato la dimensione vera e universale dello stare nel mondo.

Giancane è animato da un discorso etico-religioso tutto radicato nel quotidiano, con l’uomo specchio dell’Universale, così il professore barese non trasferisce le iniziative a Dio (o come qualsivoglia si chiami), ma sulla capacità dell’uomo di analizzare il mondo, le sue aberrazioni, i sentimenti e tracciare una linea di condivisione, per intraprendere un processo teso a riscattare l’uomo dal peso delle sue contraddizioni, dei suoi idoli, dei suoi errori.

E per questo fine, all’uomo è data la ricerca, così il poeta giunge ne “La prima Valle”, in cui “m’incamminai negli anni giovani”. E guidato da Rumi, nella fattispecie, il Virgilio dell’autore, compie direttamente esperienze del mondo, senza delegare, perché l’azione è esclusivamente personale, toccando con mano la vita di tutti i giorni svenduta, sperequata, diabolica, libertina… Insomma, un accumulo di esperienze per conoscere e discriminare; ebbene, dopo aver sacrificato anche amicizie e sentimenti forti, il poeta levantino si ritrova “In un’altra Valle”, entrando all’improvviso “Nella valle/dell’amore “.

E nel suo viaggio esistenziale, Giancane comprende quanto l’amore sia una grande illusione, la cui forza travolgente, benchè sembri fonte di Senso, sia in realtà un fuoco effimero, che dopo l’iniziale vigore, la fiamma si spegne e le cui ceneri diventano spesso “velenose”.

Mentre continua il viaggio accede alla “Valle della gnosi” e scorge l’Universale nel particolare, l’eterno nel quotidiano; così il viaggio continua e bagnato dalla luce acquisita nella Valle “della gnosi”, giunge in quella dell’”Unità”, in cui scorge l’esistenza come “singolarità”: “Ero io/che salivo lungo/pericolosi precipizi”; il poeta intuisce che ognuno è monos, con “Un essere/che mi guidava da altri mondi”. Così “La rosa fu uguale/al giacinto/e il gatto selvatico/alla biscia che sfugge/nel fogliame “.

Nella visione del poeta tutti gli esseri viventi costituiscono un unicum, sicchè ogni violazione è un delitto.

Da qui la valle successiva “dell’appagamento”, ovvero quella in cui si manifesta una sottile gioia di non cercare altro. E “La Valle della meraviglia” origina nel poeta uno “stupore/di fronte al mondo”, pur nella sua varietà, comprendendo che il senso della meraviglia risieda nel cuore e non nella ragione “che ben poco ne sa/di ciò che ci circonda “.

Così alla fine del viaggio, Giancane conclude che delle cose materiali acquisite con affanno: “Nulla è ‘mio’/e nulla sono io/se non un granello/di misera polvere/sperduto nell’universo”, con la consapevolezza che possedere le cose materiali è solo un’illusione di chi tiene rivolto lo sguardo verso il basso.

L’operazione compita dal poeta barese è tentare di rintracciare i tratti essenziali e caratteristici dell’esistenza, ovvero, un percorso che ha per oggetto l’essere dell’esistenza, e a suo modo donarci una strada che è in parte ontologica e in parte effettuale, e a noi lettori la possibilità di decidere e scegliere la strada lungo la quale incamminarci in questo nostro viaggio sì breve, a tempo determinato.

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