Echi di un Sud memorabile di Cosimo Rodia, Università della poesia J. R. Jimenéz, 2024

 

È un tributo alla civiltà contadina che ha formato intere generazioni e ha piantato in tanti cuori, pur nella durezza dei tempi, valori indelebili di solidarietà, rispetto, senso comunitario, progettualità e speranza nel futuro.

Una civiltà condizionata dall’alternarsi delle stagioni, dallo scandire lento del tempo, dalle preghiere silenziose per la clemenza del tempo. Una civiltà che si muoveva tra timori e tremori, tra realtà e mistero, tra speranza e gioia dei raccolti.

Un tempo che donava speranza, così stridente rispetto all’oggi, in cui tutto è presente e la vita si consuma nell’ora, senza passato e senza futuro, quasi da generazione ‘terminale’.

Ebbene, questa civiltà definitivamente archiviata nella storia umana, può costituire, nel riproporla, un termine di paragone per misurare il deserto che ci avvolge, le strade solitarie, un genere umano che vaga svanito e senza radici.

 

Mia madre

Mia madre nei lunghi pomeriggi uggiosi dietro

le imposte col vento che scudisciava le piante

con voce di preghiera diceva: Il contadino

si sposa con la pazienza, con l’attesa e il paradosso.

Lavora per raccogliere e attende calmo, sperando

che non giunga la beffa del fato. E quando

la grandina distrugge il raccolto,

mai cade nella disperazione,

perché il contadino è un sacerdote che crede

prega e spera. Il contadino non è mai padrone

del suo destino, si affida nelle mani del Signore

anche se a volte bestemmia in silenzio, perché gli sfugge

il mistero della vita che procede insensibile

per la sua strada imperscrutabile.

Mia madre forse suggeriva di voltare le spalle

alle attese del contadino.

 

Ora nel tempo dei consuntivi, dopo aver dato le spalle

a quel mondo in cui il cielo era un sordo tiranno,

cosa avrei guadagno in questa vita di apparenze,

di mercimonio, di scienza esatta e corpi rifatti?

 

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