Una pistola al Luna Park di Monica Messa, RP libri, 2024
di Roberta Positano
Il Luna Park è un’immagine forte nella mia memoria; è tornare indietro al periodo in cui mio padre, chiuso il padiglione nella Fiera del Levante, ci portava al Luna Park, un posto meraviglioso che, forse nella mia mente, immaginavo identico al paese dei balocchi di Pinocchio.
Insieme alle mie sorelle, imbambolate camminavamo al fianco dei nostri genitori, affascinate da tutto ciò che incontravamo.
I suoni si mischiavano ai profumi delle grigliate, alla dolcissima nuvola di zucchero filato; gli occhi scintillavano insieme alle mille luci, colori, immagini che si susseguivano senza sosta e poi il brivido della corsa sulle giostre, la dolcezza dei cavallini principeschi che ci trasportavano nel mondo delle fiabe.
Tutto ci avvolgeva in quel posto incantato e tutto era magicamente irreale come la silloge di Monica Messa: “Una pistola al Luna Park”.
Un componimento ricco di immagini evocative, di emozioni, sensazioni, personaggi, situazioni che suggeriscono un intreccio tra figure simboliche, storie intime e ambientazioni suggestive che, attraverso un linguaggio musicale, sconvolgono ed emozionano il lettore.
Il componimento è formato da undici sezioni, la prima è dedicata a Samir, simbolo di apertura della raccolta di poesie. Il suo nome ci trasporta in un contesto culturale caratterizzato dal Medio Oriente, riferendosi ad una etnia ben precisa, simbolo di un personaggio legato al tema dell’emigrazione o alle radici; è potente l’immagine del dolore che “puzza” offrendo una sensazione forte e concreta di quella sofferenza.
Dolcissima già nel titolo è “la bambina di rame e di miele “ un tocco fiabesco che apre a molteplici rappresentazioni contrapposte.
Un padre che va via; una frase scioccante che ti lascia inebetita “Pensa alle cose belle (diceva mentre la penetrava)” e rimani per ore agghiacciata dall’idea della violenza che si consuma; la semplicità e l’ingenuità che traspare da “Mamma, i libri piangono” carica di una dolcezza malinconica e la domenica che trascorre tra il dolceforno, la nonna e il cruciverba e le tabelline che ricordano le lettere colorate di Rimbaud.
I versi: “Ha le scarpe al contrario ma non le importa . /Per seguire le formiche non serve equilibrio .” sono un invito all’assenza di preoccupazioni per vivere liberamente le convenzioni “per seguire le formiche” ci vuole leggerezza perché per comprendere il mondo basta lasciarsi andare senza sottostare a una logica esigente. L’ultima poesia “Mia madre dorme” è struggente nella sua nostalgica memoria: dormire insieme, guardare i film della fiera, le tabelline il pomeriggio, i bucati che volano, la complicità delle letture nascoste e un finale che lascia il fiato sospeso.
Le poesie di Monica ci offrono una frammentarietà e una densità paragonabile a un flusso di coscienza poetica che contribuiscono a dare un fascino onirico ai suoi testi.
Il personaggio successivo “Geremina Merdaoro” una vera e propria provocazione che scuote e disorienta il lettore dove il grottesco si unisce all’ironico, per affrontare i vasti temi sociali e personali. Nella prima poesia la natura si contrappone alle “Frecce a raffica sulle strisce pedonali” ed emerge potente e affascinante la figura di Geremina Merdaoro con uno chignon di rame, un iride di berillio, nei suoi sedici anni con le scarpe nuove di vernice e i talloni scorticati. Sconvolge l’immagine dei gelsomini cui è stata tagliata la testa creando una sottile tensione nel lettore tra gesti quotidiani e simboli potenti.
Monica vuole disorientarci e lo fa efficacemente, offrendoci un intreccio denso e stratificato di immagini che richiedono più letture come avviene nella quarta sezione “Pane e fumo” ancora una volta il pane quotidiano viene associato all’immagine del fumo un elemento evanescente che suscita precarietà; forse è la fatica del vivere o la contrapposizione tra l’essenziale e l’ingannevole?
E’ inchiodata eppure si muove tra scaffali e lattine ma ha “l’orizzonte portatile in borsa”, un’immagine meravigliosa che ricorda “il tramonto in una tazza di the” della grande Emily.
E ancora il vino che scalda, la preghiera, anche nel dubbio che forse non esiste l’al di là, “Il corpo che puzza, prude, invecchia, pesa” il peso della quotidianità che “spezza” e l’invito a trasformare la potenza della rabbia in poesia per vedere il fuoco danzare.
Ogni verso è carico di simboli e Monica ha una voce poetica autentica e intensa capace di far vibrare corde emotive profonde.
“Annarella” suscita immediatamente tenerezza, mani da bambine per affrontare un mondo troppo grande, la fragilità degli undici anni di fronte al dolore della chemio. In questi versi il dolore non è solo descritto ma è fisico, concreto è sentito. Annarella diventa il simbolo universale del dolore sottolineando la perdita di una infanzia felice.
segue “Bice” un nome velocissimo, le piace cantare, ama i gattini, ha vent’anni e nessun fidanzato e una felicità inceppata in una pistola da Luna Park “dieci colpi, cento lire”.
Sembra di trovarsi dietro una cinepresa per cogliere ogni istante della vita di Bice alla cui bellezza si contrappone quella “risacca” interiore costituita da una profonda malinconia.
I frammenti di frasi tratte dalle canzoni datano quei momenti in cui a Monopoli tutto profumava di anguria, di mare, di vino.
Abbiamo due filoni in questa sezione la storia di Bice e una riflessione di largo respiro sulla nostalgia.
La carpa nel castello. L’immagine surreale ci invita ad intraprendere un viaggio complesso tra riflessioni personali e immagini poetiche creando un universo altamente suggestivo.
La nascita in un tardo pomeriggio, “troppa fantasia e troppi capelli/ per una testa così piccola”, un’amica (l’infanzia) che scrive di noi per esplorare temi non convenzionali tra il fisico e il metafisico per descrivere l’intrusione di un elemento estraneo in un contesto rigido e protetto (il castello) nel dubbio di essere un fossile o un’erba nuova.
Una sottile nota nostalgica la riscontriamo in “Un piccolo amore” per chiederci cosa può dirci quel “piccolo”. Un amore di poco conto? Un amore effimero? Un amore non corrisposto? O semplicemente un amore troppo giovane? Le tre poesie che compongono questa sezione ci mettono in contatto con la morte quando cattura momenti quotidiani interrotti; ci invita a rispettare e ricordare i morti con quelle lettere brevi che contengono poche parole “per non disturbare il loro sonno”.
La vita ricomincia all’Eurospin ma il pensiero vola in quell’ospedale a sottolinearne una dimensione estremamente personale.
Pino è un marinaio, che è perito industriale, che scrive poesie e, con poche frasi abbiamo due realtà, la contrapposizione tra le professioni tecniche e la scrittura poetica, in un immaginario cosmico dove si intrecciano riflessioni umane, mentre nella notte il treno corre dando ritmo e movimento all’intera sezione e ecco che il livello emotivo si attenua per raggiungere una maggiore intimità con quella chiusura enigmatica “Chissà se sei da qualche parte”.
Nell’ultima sezione “Un paese” la visione poetica diventa collettiva abbandonando le figure personali per abbracciare una dimensione sociale. La vita comunitaria e la nostalgia per quei luoghi lontani che restano solo nella memoria in un viaggio tra il quotidiano e l’universale.
Il testo è privo di un filo conduttore saldo ed è sovraccarico di immagini, alcune di esse sono poeticamente potenti sebbene frammentate creando la necessità di una forte introspezione da parte del lettore.
Il ritmo è interessante e ben si adatta al testo surreale.
I momenti lirici si alternano ad espressioni crude creando momenti di disorientamento.
Il simbolismo è nettamente affascinante sebbene possa risultare impenetrabile.
La sovrabbondanza di immagini rischia di non lasciare spazio alla metabolizzazione delle stesse.
Il linguaggio è studiato, ricercato, innovativo e musicale.
Monica dimostra una straordinaria capacità di giocare con immagini surreali e un registro poetico molto sofisticato.
La silloge Una pistola al luna park sembra costruire attraverso una galleria di personaggi, situazioni e immagini evocative un intreccio di storie intime, ambientazioni suggestive e figure simboliche, che potrebbero esplorare una varietà di emozioni e prospettive offrendo una riflessione finale consolatoria, in realtà usciamo dal Luna Park stanchi e contemporaneamente eccitati dalle emozioni, dai suoni, dalle visioni sconvolgenti, dagli odori e dai profumi che ci portiamo sulla pelle, negli occhi, sensazioni che vibrano nell’intero corpo e sull’intero corpo con la voglia di chiudere gli occhi e assaporare ogni attimo in una dimensione lunga e profonda.
Usciamo da un luogo circoscritto e incantato lasciando una porta aperta, quella delle nostre emozioni.
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