Il tempo che fugge di Robert Brasillach, Settecolori

di Sandro Marano

 

Il tempo che fugge, pubblicato nel 1937,  è il quarto dei sei romanzi che Robert Brasillach diede alle stampe nel corso della sua breve vita. Una malinconica fatalità pervade le pagine di questo lungo romanzo d’impostazione classica, scritto nel solco della migliore narrativa francese di fine Ottocento.

La trama è piuttosto lineare: è la storia di due persone, René e Florence, che si conoscono fin dall’infanzia vissuta in un piccolo borgo dell’isola di Maiorca che è il loro paradiso, “la società segreta di felicità e di sogno”, si amano e mettono al mondo un figlio, si separano in quegli anni “dell’inquietudine universale”, e infine si ritrovano dopo quattordici anni ricordando la vita vissuta e salutando “con amicizia il destino”.

La storia è narrata in terza persona da un loro comune amico che ne raccoglie le confidenze ed è scandita in sei grandi capitoli, che, a ben vedere, costituiscono le diverse stagioni della vita: l’infanzia, la giovinezza, l’amore, lo smarrimento e il distacco, la guerra intesa soprattutto come avventura e prova di sé, il ricordo della vita vissuta e della giovinezza, che è “un dono fatto una sola volta” di cui spesso non ci rendiamo conto.

E in fondo il tema fondamentale del romanzo è questo, è lo scorrere inarrestabile del tempo che avvolge i protagonisti e i luoghi come un fiume e che solo in alcuni momenti sembra fermarsi per donare loro la felicità. Brasillach descrive con maestria queste pause nella fuga del tempo, il passaggio da una stagione all’altra della vita e quello che chiama “l’eminente dignità del provvisorio, che è così contraria alla concezione borghese della vita”.

In uno dei tanti bei passi del romanzo scrive: “Era una sera del dopoguerra, in cui si credeva ancora in tante cose, e alla giovinezza eterna, e al sapore di miele dei tigli su Parigi. Fra vent’anni chi aveva conosciuto tutto ciò l’avrebbe ricordato?”.

Le stagioni della vita sono legate sempre intimamente ai luoghi ed anche i luoghi non sfuggono al fiume del tempo: la Parigi “dei capelli corti e delle esposizioni cubiste”, dei rumori e dei tram che con le loro rotaie solcavano la città “come una elettrica tela di ragno”, prende il posto della Parigi della giovinezza, “delle carrozze e dei grandi cappelli”. Così come non esiste più il giardino “che andava dolcemente fino al mare”, il luogo privilegiato della loro infanzia.

Sennonché nel ricordo è proprio la giovinezza ad avere un posto di primo piano, è il suo fascino doloroso nel momento in cui ci lascia e il suo assiduo richiamo nel corso della vita: “ed era la giovinezza crudele e furtiva che riappariva, la città di provincia, la Parigi di una volta, la Spagna riarsa, le spiagge sepolte, e sempre quella musica si alzava sotto le sue dita, e Florence così si inebriava, pensando al tempo che fuggiva”.

Brasillach, non caso, è stato definito il poeta della giovinezza. Nessun’altra stagione della vita ha infatti il fascino della giovinezza, la sua leggerezza, il suo senso di libertà, la sua voluttà.

Nel terzo capitolo del romanzo intitolato «La notte di Toledo» Brasillach si sofferma a lungo nel descrivere il rapporto sessuale che hanno i due giovani protagonisti in una camera d’albergo della città di Toledo,  mentre nudi uno contro l’altra sono avvolti dalla luce della luna al suo zenith e scorre “quel profondo, verde, calmo, fresco e magnifico fiume che è il Tago”. La notte di Toledo con i suoi profumi di primavera e il desiderio di unione che freme nei giovani corpi è un’isola meravigliosa, che certo non si sottrae allo scorrere del tempo, ma persiste indelebile nel ricordo.

Forse il miglior commento a questo romanzo di Brasillach lo potremmo rinvenire in un passo de L’evoluzione creatrice (1907), in cui il filosofo francese Henri Bergson, parlando del tempo come durata, che è esperienza che si accumula senza sosta, osserva che “il nostro passato resta presente a noi stessi. Che cosa siamo infatti, che cos’è il nostro carattere, se non il condensato della storia che abbiamo vissuto dalla nostra nascita in poi? Col nostro passato tutto intero desideriamo, vogliamo, agiamo”.

Ha dunque ragione Riccardo Paradisi a scrivere nella postfazione che Il tempo che fugge è un libro incantato, un «romanzo di formazione e diario intimo, meditazione sul destino e sul tempo, racconto della e sulla giovinezza».

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