Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista di Ernesto Galli della Loggia, Il Mulino, 2024

di Sandro Marano

 

Ernesto Galli della Loggia, professore emerito di storia contemporanea, è un intellettuale libero da schemi pregiudiziali, abituato a dire pane al pane e vino al vino. Lo dimostra ancora una volta il suo recente saggio Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista. Si tratta di un libro “denso e molto bello” (Paolo Macry), che si legge d’un fiato per la sua scrittura fluida ed avvincente e che unisce alla consueta e rigorosa documentazione storica i ricordi personali di Galli della Loggia. Se «Roma è il massimo esempio visibile di quanto il fascismo abbia inciso sulla vicenda italiana, della vasta eredità che esso ha lasciato e che in moltissimi luoghi è ancora intorno a noi», d’altro canto, come dichiara in apertura l’autore, «ai miei occhi la Roma fascista è anche la Roma sparita della mia giovinezza».

Roma senza dubbio rappresenta l’apice dell’attività edilizia del regime fascista che per noi, abituati a ben altri ritmi e a lungaggini burocratiche, nonché alla modestia delle realizzazioni dell’Italia repubblicana che ha rinunciato alla grandezza dello stile, ha qualcosa di strabiliante: «Tanto per dare un’idea, la sola Opera nazionale Balilla (fondata nel 1926 e poi assorbita dalla Gioventù italiana del Littorio) costruì nell’intera penisola la bellezza di 890 Case del balilla, 1470 palestre, 2568 campi sportivi, 22 piscine. E quasi non bastasse 147 furono le città nuove fondate dal regime. Tra il 1922 e il 1940, insomma, l’Italia si ricoprì di nuove costruzioni e di una miriade di opere del regime: di fatto e almeno visivamente ogni costruzione divenne un’opera. Infatti tanto gli edifici sorti a spese dell’erario (uffici postali, stazioni, caserme, tribunali, palazzi pubblici più vari), quanto pressoché tutti gli altri, anche le normali case d’abitazione, vennero corredati dei loro bravi emblemi che in un modo o nell’altro ricordavano il fascismo».

Tutto questo rispondeva non solo a fini propagandistici, ma anche alla precisa volontà del regime di farsi immagine viva e palpabile della nuova Italia e dell’uomo nuovo che intendeva edificare. Si trattava, insomma, di uno stile che raffigurava plasticamente una visione del mondo.

Peraltro, ciò che più colpisce l’osservatore non prevenuto è la modernità delle soluzioni adottate che sapevano richiamarsi ad un passato nazionale, al mito di Roma imperiale, senza cancellarlo. Il che spiega «il motivo del perdurante fascino della Roma fascista: spira da essa una modernità che in un certo senso appare sempre immunizzata dal suo contrario» e finisce per darci una sensazione non di estraneità, di “radicale superfluità”, come accade in tante altre città del mondo, ma di continuità, «di stare dentro una storia», di sentirsi parte di un destino comunitario.

La Roma papalina e umbertina aveva un aspetto popolaresco e straccione, a volte pittoresco, dove non era raro trovare ancora greggi al pascolo e dove un “ammasso archeologico-abitativo”, un tessuto urbano disordinato, fatto di botteghe, di vicoli, di baracche, di costruzioni fatiscenti e insalubri si amalgamava ai monumenti storici e alle rovine, mentre la politica, che viveva attorno a piazza Colonna, al Parlamento, a palazzo Chigi, col  suo “politicantismo affaristico” e i “mille aspetti degenerativi del parlamanterismo”, era sentita dalla popolazione come un corpo estraneo.

L’avvento del fascismo segnò una rottura radicale con tutto questo. Mussolini immaginò e realizzò in buona parte «un programma visionario di amplissimo raggio», avvalendosi di una schiera di architetti e urbanisti eccellenti, da Piacentini a Libera, da De Renzi a Del Debbio, per lo più giovani e in sintonia con l’insegnamento del fascismo che puntava sulla giovinezza, sull’efficienza, sulla rottura degli schemi.

Con Mussolini, si può dire, nasce finalmente una capitale moderna. La città diventa il cuore pulsante dell’intera Italia: in poco tempo vengono liberati dal reticolo urbano che li circondava il Foro Romano, il Colosseo, il Campidoglio. “I monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine”, dichiara Mussolini. Si costruiscono gli impianti sportivi del Foro Italico, lo stadio Olimpico, lo stadio dei Marmi, il palazzo delle Terme, lo Studium Urbis, un campus universitario da 210.000 mq. Ed ancora un intero quartiere, l’Eur42, che si sarebbe dovuto inaugurare nel 1942, rimasto incompiuto a causa dello scoppio della guerra, dove spiccano il palazzo della Civiltà Italica e il palazzo dei Congressi.

Senza contare i servizi, le centrali elettriche, un acquedotto, il gigantesco gasometro dell’Ostiense, la centrale del latte, i collettori fognari, gli argini del Tevere, gli ospedali, le palestre, i campi sportivi. Ed ancora l’autostrada per Ostia, la cosiddetta via del mare, che finalmente avvicinava i romani d’ogni ceto ai lidi e dove ci si poteva recare per bagnarsi, prendere il sole, pranzare, giocare a carte, ballare al tramonto.

“Una grande opera di avanzamento civile”, osserva Galli della Loggia, che spesso la polemica antifascista ha negato e che giova invece a spiegare l’altrimenti  incomprensibile consenso al regime.

La città raddoppia la popolazione: dai 700.000 del 1921 a 1.400.000 del 1941. Si espande nella periferia con le borgate e non attrae soltanto migliaia di impiegati, di tecnici e di maestranze che trovano lavoro nell’edilizia e nelle amministrazioni pubbliche, ma anche scrittori, artisti, letterati, giornalisti. Roma diventa la capitale della cultura. S’insediano nuove istituzioni come il CNR, l’Istituto di Statistica, l’Accademia d’Italia, l’Enciclopedia Italiana. Nascono nel 1927, in via Asiago, l’Eiar e nel 1937 Cinecittà con i suoi 60 ettari di teatri di posa, uffici, laboratori, mense, ristoranti.

Galli della Loggia non manca peraltro di rilevare la complessità e la dose di ambiguità che il fascismo si portava dietro nella sua ideologia che si riverberava anche nell’architettura, dove convivevano la corrente razionalista e quella neoclassica. Accanto alla “foga modernista”, accanto al giovanilismo “ansioso di mandare in soffitta tutto ciò che sapeva di vecchiume borghese, di nobilmente paludato”, accanto alla «volontà confusa ma autentica di entrare in sintonia con il rivolgimento dei tempi nuovi», si affermava nel contempo il richiamo all’ordine, alla tradizione, alla classicità romana, e soprattutto «la dimensione della nazione, allora cara a moltissimi». La corrente fascista di Strapaese d’altronde non si peritava di polemizzare con la politica urbanistica del regime. «Il fascismo – chiosa Galli della Loggia – fu anche tutto questo. E fu proprio questo che gli attirò la simpatia e spesso un’adesione convinta tra gli intellettuali e gli artisti (e non solo…)». Sintesi di questa complessità e di questa ambiguità può considerarsi il cosiddetto Colosseo quadrato, vale a dire il palazzo della civiltà italica all’EUR.

Né ci fu un’arte di Stato come nella Germania nazionalsocialista o nella Russia sovietica. Una relativa libertà era lasciata agli artisti. Certo, «tutti i progetti importanti passavano sotto gli occhi di Mussolini ed erano sottoposti alla sua attenta, spesso puntigliosa, valutazione. Ma si trattava di una valutazione dai criteri sempre incerti perché molteplici e diversi tra di loro erano al fondo anche i gusti, i richiami culturali, e mettiamoci pure le simpatie personali del duce. Non ci fu mai in Italia, dunque, salvo forse negli ultimissimi anni, un’estetica di regime. […] E anche questo dato, direi, appare una smentita alla troppo facile assimilazione del fascismo al nazismo e al comunismo sotto la comune etichetta del totalitarismo».

Nella città si respirava un’aria nuova e di grande vivacità culturale. Se oggi non tutto sopravvive in seguito «alle spregiudicate e insulse trasformazioni operate nel corso dei decenni successivi», tuttavia non può negarsi che «quanto c’è e si vede trasmette comunque l’impressione di edifici concepiti e realizzati per comunicare l’idea di uno Stato attento a presentarsi al cittadino in modo non solo visivamente autorevole ma anche esteticamente pregevole e curato». Ulteriore non meno importante elemento è l’attenzione e la cura del verde pubblico. Ad esempio, ad Ostia, a ridosso delle abitazioni, si protegge e si amplia una vasta e ben curata pineta di lecci e di pini, la pineta di Castel Fusano.

Negli anni Trenta Roma assunse, forse malgrado il fascismo, un carattere borghese. Il nuovo ceto borghese aveva preso l’abitudine di uscire di sera: va a cena alla Casina Valadier, alla Birreria Dreher, alla Birreria Albrecht, a Villa Borghese. Tra piazza del Popolo e via Veneto è tutto un ingorgo di persone e auto.

Ma fino a che punto – si chiede l’autore – questa Roma borghese si identifica col fascismo? Davvero la nuova Roma dei quartieri alti, colta, ambiziosa, gelosa del proprio status e della propria agiatezza, si fa docile strumento del regime? Probabilmente – osserva Galli della Loggia – essa fiancheggia il fascismo, almeno fino al 1938, finendo per assorbirlo, ma anche per certi versi per neutralizzarlo: «Nella Roma fascista finalmente ascesa al ruolo di capitale vede infatti la luce una società borghese diversa. È una società che muove i primi passi ma che passata la bufera della guerra e con gli opportuni cambiamenti (non molti per la verità) sarà destinata a divenire di fatto il cuore dell’Italia repubblicana, la matrice antropologica principale di quella che sarà la sua classe dirigente diffusa». Notiamo, per inciso, una qualche assonanza di quanto sostenuto da Galli della Loggia con la tesi di Evola secondo cui gli italiani in buona parte non furono all’altezza del fascismo.

Sta di fatto che il nuovo ceto borghese sopravviverà alla disfatta del fascismo e al suo tragico epilogo a Salò e sarà protagonista del boom economico del dopoguerra, d’una brutale e massiccia speculazione edilizia e delle cronache mondane. E come sempre è un’opera a raccontarcelo nel migliore dei modi, in questo caso è un film del 1960, “La dolce vita” di Fellini.

 

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