Poeti documentaristi (parte 1)

La penna come cinepresa. Le inquadrature di LEOPARDI ne: Il sabato del villaggio

di Italo Spada

 

Giacomo Leopardi scrive Il sabato del villaggio nel 1829, esattamente 66 anni prima dell’invenzione del cinematografo da parte dei fratelli Lumière. E’ fuori discussione, pertanto, il suo digiuno totale di elementi di tecnica cinematografica, quali l’inquadratura, gli stacchi e gli attacchi, il montaggio. Peggio: non avrebbe potuto sapere nemmeno come si tiene in mano una cinepresa. Eppure il suo modo di rappresentare la vita di un villaggio, di riprendere i personaggi, di spostare l’obiettivo da un’inquadratura all’altra, evocano le competenze di esperti operatori e di registi abituati a realizzare un documentario[1]. Si potrebbe dire, in altre parole, che Leopardi usa la penna che ha in mano esattamente come un regista userebbe la macchina da presa. Gioca sugli “effetti luce” e sugli incastri temporali, alterna campi e piani, inserisce la Voce Fuori Campo, ecc.

Entriamo nei particolari.

Il punto di osservazione del poeta è, probabilmente, quello di un balcone; il solito balcone di casa sua dal quale si affacciava per spiare Silvia, quei “veroni del paterno ostello”[2]  dai quali ammirava il via vai dei concittadini. Ma c’è qualcosa di nuovo in questo inoltrato pomeriggio di sabato. Il poeta, modificando l’inquadratura abituale, si posiziona su un’ipotetica gru o su un dolly ed effettua lente carrellate su uomini e cose. E’ così che nasce il suo personale documentario su Recanati.

La ragazza campagnola, che ritorna a casa dopo una giornata di lavoro, viene inquadrata prima in Primo Piano e poi nel Particolare del mazzolino di fiori che tiene in mano. È il pretesto per un’anticipazione temporale, un rapido flash che narra, per inciso, dove andranno a finire le rose e le viole colte in campagna.

Nella seconda strofa l’obiettivo si sposta lentamente verso altri personaggi.

C’è una vecchia che sta filando sui gradini di casa. Non è sola.  Ci sono, con lei, altre donne, amiche di gioventù, intente a godersi l’ultimo spicchio di sole della giornata. Il passaggio della ragazza è sufficiente a fare scattare un secondo incastro temporale; dall’anticipazione della scena precedente al classico flash back. La vecchia ricorda il tempo passato e narra ciò che ha fatto da giovane: le feste, i balli, i vestiti nuovi… Purtroppo, con i giorni, le settimane e gli anni, passa anche la vita. Nei versi che seguono il poeta si sofferma sui colori del tramonto, sulle luci e sulle ombre della sera, sulla luna che avanza. Potrebbe sembrare che egli abbia ceduto alla tentazione di riprendere un bel panorama. Nulla di più errato: da splendido narratore, Leopardi accosta concetti e immagini ed è così che la sera del sabato diventa metafora del tramonto esistenziale.

Dal visivo al sonoro. Stacco e attacco da manuale. C’è una campana che ci riporta al tempo presente; e ci sono anche le urla festanti dei fanciulli che giocano nella piazza.

Altre figure – lo zappatore e il falegname – animano il paese; altre luci lo illuminano, altri suoni echeggiano. L’obiettivo si allarga e si restringe: dai Piani ai Campi, e poi di nuovo dalle Figure ai Particolari.  Il poeta, affascinato dallo zoom e dal gioco di luce che la natura gli offre, non sa resistere alla tentazione di avvicinare e allontanare le immagini. Come un dilettante alle prese con la telecamera che gli è stata appena regalata, egli inizia a narrare molte storie ma non ne completa nemmeno una: riprende e basta.

Rimanda tutto alle fasi successive, alle operazioni di montaggio e di missaggio, quando aggiungerà altri flash-back, incastrerà i tempi del racconto, adatterà la colonna sonora, inserirà rumori, voci e suoni e completerà il documentario con un commento personale, l’amara Voce Fuori Campo del suo pessimismo.

 

 

[1] A differenza del “film a soggetto”, un documentario non racconta necessariamente una storia, ma fa emergere, tramite una serie di inquadrature,  una situazione, descrive ciò che si vede.

[2] A Silvia, v. 19

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