Italian girl di Elisa Giobbi, Fernandel, 2025

Redazione

 

«Il mio posto è qui, in questo paese in mezzo alla pianura. Ormai sono una ragazza italiana»

 

La diciottenne Saman scompare nella notte del 1° maggio 2021, dopo essere tornata nella casa di famiglia per riprendersi i documenti che le sarebbero serviti per andarsene col fidanzato. Il suo corpo senza vita viene ritrovato solo un anno e mezzo più tardi, in un casolare abbandonato non lontano dall’abitazione. Per l’omicidio vengono condannati i genitori e lo zio. Il movente del delitto è la volontà di sopprimere gli aneliti di libertà della ragazza, che sfida le imposizioni della famiglia e del clan cercando la propria indipendenza e felicità.

Elisa Giobbi presta la voce alla giovane pakistana, consegnandoci pagine di un emozionante diario in cui la ragazza confida sospetti, sentimenti e paure, sogni e intimi desideri, raccontando il suo ultimo anno di vita, le privazioni e le punizioni, le fughe, il viaggio in terra natale, il fidanzamento imposto col cugino, l’ingresso in comunità e l’amore per un ragazzo conosciuto sui social, fino alla notte dell’esecuzione.

L’adolescenza spezzata di Saman, la sua esistenza «attorniata da affetti falsi e manipolatori, in una solitudine che lascia attoniti» (queste le parole della Corte), acquista così un valore universale, diventando emblema della lotta per la libertà personale e per il diritto di scegliere il proprio destino, temi che superano ogni confine culturale e sociale.

 «Mamma e papà poi ce l’hanno a morte con me, mi rimproverano sempre più spesso, dicono che ho dimenticato le mie origini, il mio paese, che ho rinnegato Allah. Ma almeno tu devi credermi: non è vero, non sono una rinnegata e non ho dimenticato un bel niente. Anzi, ricordo tutto del Pakistan, ma tengo impresse nella memoria sia le cose belle che quelle brutte. Ricordo quando arrivava la primavera e si portava via il breve gelo dell’inverno, ricordo quando con la mamma andavo a far compere nel bazar, tutti quegli odori e quei colori, e mi sentivo piccolissima, un puntino in mezzo alla fiumana di gente colorata in movimento, e tenevo stretto nella mano un lembo dell’abaya nera di mamma. Poi rivedo il forte, la città vecchia, la moschea immensa. Mi manca la mia nani, che la domenica ci preparava l’agnello al curry, mi manca ballare la musica qawwali durante le cerimonie sufi per divertirmi con te e le nostre amiche. Il fumo denso dell’inquinamento avvolgeva ogni cosa, l’afa di giugno era insopportabile, come la puzza dei rifiuti nella discarica sotto casa. Ricordi, Noor? C’erano topi che sgattaiolavano tra i cumuli di cibo marcio, e nugoli di grossi scarafaggi che si disperdevano rapidi, ma anche bambine come noi che cercavano avanzi di cibo o vestiti o chissà cos’altro, là dentro. Le guardavamo senza sapere cosa pensare: a Lahore non ci facevamo caso, eravamo abituati alla miseria, eravamo in tantissimi, tante famiglie numerose, e mi sembrava la cosa più normale del mondo. Questo ho imparato spostandomi da un luogo all’altro: quello che da una parte ti sembra normale, non è detto che altrove lo sia. Ciò che mi consola è che esiste sempre un posto dove ti senti a casa, anche se non è dove sei nata. Per me funziona così anche per la famiglia, ma questo non si può dire: sulla famiglia è meglio che me ne stia zitta e buona se non voglio passare altri guai; certe cose potrei dirle soltanto alle amiche fidate come te.»

 

 

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