Tramonto o eclissi della distinzione destra/sinistra?
di Sandro Marano
In una lucida, concisa e compendiosa nota intitolata “Destra/sinistra: uno spartiacque necessario?”, apparsa sul n. 67 della rivista Trasgressioni, Marco Tarchi fa il punto sull’annoso dibattito circa il significato e la validità della distinzione fra destra e sinistra. Si tratta di una discussione che sembra destinata a non giungere a conclusioni soddisfacenti per il semplice motivo che nella realtà le categorie non esistono: “ogni nome è un simbolo e non la cosa stessa” (Deborah Stone). E d’altra parte denominare significa dare un giudizio, e dunque prendere posizione.
Due tesi contrapposte
Le due tesi che si contrappongono sono, pur con tutte le varie sfumature e diverse versioni, quella di coloro che insistono sul carattere artificioso della diade destra/sinistra e quella di coloro che ne sostengono la necessità e consistenza. Quest’ultima, che possiamo definire “essenzialista” (perché ritiene che tali categorie abbiano una precisa connotazione), riscuote nell’ambito scientifico, come nota Tarchi, maggior credito ed è classicamente espressa da Norberto Bobbio. Per quest’ultimo, com’è noto, la destra si fonda sul riconoscimento delle necessarie e “naturali” diseguaglianze, mentre la sinistra persegue sempre e comunque l’eguaglianza. È curioso notare come, dal versante opposto, la prospettiva di Bobbio – che ci siano cioè dei nuclei fondativi della distinzione – sia condivisa da Marcello Veneziani, pur nella consapevolezza che «la storia produce sempre contaminazioni e contraddizioni».
Le aporie della distinzione destra/sinistra
La critica che può rivolgersi a questa visione è che la sua capacità descrittiva ha uno scarso riscontro dal punto di vista empirico. Osserva Tarchi: «se all’aut-aut metafisicamente presupposto da filosofo piemontese si opponesse un et-et, non sarebbe difficile confutarla, mostrando che nella realtà politica sovente tertium datur e molte linee di conflitto faticano ad essere ricondotte alla logica binaria cara all’autore di Destra e sinistra».
E qui possiamo fare il caso dei movimenti ecologisti, conservatori e rivoluzionari insieme, che per la loro critica alla civiltà industriale e al mito del progresso possono venir qualificati di “destra” o reazionari, mentre per la pacificazione tra uomo e natura e le tematiche civili che propongono possono apparire a tutta prima di “sinistra”. Ma è stato anche il caso dei movimenti fascisti, che aspiravano a porsi al di là della destra e della sinistra, coniugando idealità di “destra”, come la gerarchia, a idealità di “sinistra”, come la socialità.
Così Alain De Benoist, sulla base di puntuali osservazioni della realtà dei nostri tempi, ha buon gioco nel confutare la validità di questa distinzione, mostrando il costante passaggio di tematiche sociali e civili da destra a sinistra e viceversa. Peraltro, egli nota, non ci sono uomini che sono sempre di destra o di sinistra.
Nell’evidenziare i limiti di un approccio “essenziali sta” Tarchi osserva che «anche la parte che si è maggiormente giovata della contrapposizione, ha stentato a riconoscersi nella parola con cui si è preso a designarla: tanto è vero che né Marx, né Engels, né il Lenin dei primi decenni di attivismo politico, l’hanno utilizzata, anche se negli anni venti del XX secolo i partiti socialisti e poi comunisti hanno finito con l’inserirla nel loro lessico. E per molto tempo, anche là dove sinistra e destra si erano affermate nella dialettica parlamentare, il loro impiego è stato fluttuante […] il caso dell’Italia post-risorgimentale, con il suo trasformismo, è un esempio evidente».
E non a torto Giuseppe Prezzolini in quel magnifico testo del 1977, che è Intervista sulla destra (a cura di Claudio Quarantotto), dichiarava che non gli piacevano le definizioni che sono, sì, necessarie, ma pur sempre riduttive e si chiedeva se le destre fossero tre o trentatré.
Una critica irriverente ma vera
«Ma cos′è la destra, cos’è la sinistra», si chiedeva un artista anticonformista come Giorgio Gaber nel ritornello di Destra – Sinistra, una sua canzone del 1994. E certamente la sua critica popolaresca, irriverente, scanzonata, all’uso – e soprattutto all’abuso – della dicotomia destra/sinistra coglie nel segno. Ricordiamo giusto qualche strofa:
«Tutti noi ce la prendiamo con la storia
Ma io dico che la colpa è nostra
È evidente che la gente è poco seria
Quando parla di sinistra o destra
(…)
Il pensiero liberale è di destra
Ora è buono anche per la sinistra
Non si sa se la fortuna sia di destra
La sfiga è sempre di sinistra
(…)
Una donna emancipata è di sinistra
Riservata è già un po’ più di destra
Ma un figone resta sempre un′attrazione
Che va bene per sinistra e destra».
Destra e sinistra, due facce della stessa medaglia
A queste critiche possiamo aggiungere le pregevoli considerazioni di Massimo Fini che, pur considerando non del tutto obsolete queste categorie, ritiene che non siano più in grado di comprendere una realtà che le ha scavalcate. La modernità ha via via svuotato la portata di queste distinzioni. Utilizzando, per indicare la modernità, la incisiva metafora del treno senza macchinista che deve di continuo aumentare la sua velocità, pena il suo inceppamento, Fini dimostra come destra e sinistra, marxismo e liberalismo, siano solo due facce della stessa medaglia, entrambe figlie della rivoluzione industriale, e tutt’al più si dividono solo sul modo di distribuire la ricchezza prodotta: «Sono come due arcate di un ponte che, apparentemente opponendosi, si sono sostenute a vicenda per due secoli» (in Il Ribelledalla a alla z).
Il filone funzionalista
D’altra parte è pur vero che gli uomini non possono fare a meno di punti di riferimento semplificati. A questo proposito Tarchi dedica largo spazio all’analisi delle tesi dello studioso canadese Jean Laponce, il quale, convinto del valore euristico dei due concetti, inaugura il filone che potremmo chiamare “funzionalista”.
Secondo Laponce – che non sappiamo quanto consapevolmente si rifà alla intuizione spazio-temporale usata da Kant per costruire il mondo della conoscenza – abbiamo comunque bisogno di metafore spaziali per orientarci nella comprensione dei fenomeni: «Lo spazio – con la sua altezza, la sua profondità, le sue relazioni di distanza e prossimità, il suo dietro, il suo avanti, la sua sinistra e la sua destra – ci fornisce (…) una lavagna bidimensionale ove collochiamo e scriviamo le nostre spiegazioni e prescrizioni morali, religiose, politiche mediche, filosofiche quotidiane». E questo vale anche nonostante «l’impossibilità di attribuire una volta per tutte un contenuto univoco» alle suddette categorie. La distinzione, a prescindere dai contenuti, è quindi in funzione dell’esigenza di chiarezza e semplificazione degli esseri umani.
Una conclusione provvisoria
Il tema, come può notarsi da questi pochi accenni, è ben lungi dall’essere concluso. Tanto più che «è ormai un dato di fatto assodato che il progressivo attenuarsi delle linee di frattura socio-culturale attorno alle quali si erano forgiate le tradizionali identificazioni politiche e la comparsa di molti nuovi versanti di conflitto – dalla questione ecologica a quella migratoria, dalla biopolitica ai nuovi “diritti civili” – rendono i comportamenti politici degli individui sempre meno tributari di riferimenti ad insiemi ideologici coerenti».
Le categorie di destra e sinistra, osserva infine Tarchi, benché largamente screditate, sono comunque ancora usate e non si può dire francamente se ci troviamo di fronte ad una loro eclissi o ad un loro definitivo tramonto. Conclusioni che facciamo volentieri nostre.
(pubblicato su Barbadillo, 27 gennaio 2022 col titolo “La contesa sulle categorie destra-sinistra vista dalla rivista Trasgressioni”)
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