L’intellettuale oggi
di Cosimo Rodia
Gli steccati ideologici sono caduti da un pezzo; sono già padri i nati dopo la caduta del muro di Berlino e la frantumazione dell’URSS.
Quando il mondo era sorretto da ideologie forti, gli intellettuali avevano lo scopo preciso di elaborare teorie per tenere in piedi uno Stato ipostatizzato. Venute meno tali ideologie, si è frantumata la grande potenza di carta, lasciando tanti orfani allo sbando e intere praterie di pensiero alla mercé dell’edonismo e dell’avere. Gli intellettuali, dal canto loro, hanno creduto di ripiegare nei piccoli salotti o inventare soluzioni temporanee. Palliativi, insomma. Si è propagato, a vari livelli, lo sperimentalismo, configuratosi spesso come gioco autoreferente, distaccato dal mondo reale e dalle tragedie quotidiane; finanche si è scivolati ad attenzionare fatti minimi, periferici, elevati, poi, a paradigma.
Nella società liquida, pluricentrica e anomica, le regole, i bisogni, i gusti sono definiti lontano dalla volontà individuale.
Per la sociologia “organica” (ed anticapitalistica) tali regole, bisogni e gusti erano formulati nel laboratorio delle classi dominanti; oggi certamente sono definiti da élite economiche e proposti con grande capacità pervasiva attraverso i media. Più che un grande vecchio che muova i fili di una comunità, vi è un mondo produttivo che crea un mercato, progetta mode, gusti e atteggiamenti.
In questa realtà globalizzata e completamente eteronoma (fenomeno accentuato con l’avvento della telematica), lo spazio dell’intellettuale è decisamente ristretto; in una società “spottizzata”, un primo obiettivo fondamentale che può (e deve) porsi è quello di mettere al centro della riflessione l’Uomo, quale soggetto unico, dalle potenzialità creative, spirituali, peculiari ed inalienabili.
E l’ambito privilegiato in cui avviare l’azione di promozione umana è l’arte, la quale deve essere capace di distinguere primamente tra ciò che produce l’attività umana a vari livelli, da ciò che deriva dal processo seriale del cosiddetto “multiplo”, rilevando poi che in quest’ultimo il soggetto è passivo, ovvero incapace di produrre arte, perché ne è consumatore; a quest’ultimo non appartiene né la fase di esecuzione né quella di ideazione. Già Pareyson aveva operato la distinzione tra artisticità e arte: «La prima è naturalmente disposta all’ispirazione e all’imitazione, la seconda a fungere da norma e da modello».
Operata questa distinzione, va precisato che nella prima, ovvero nell’artisticità, sono iscrivibili tutti i prodotti definiti dall’uomo, ultimati in ragione della sua intelligenza e della sua sensibilità, prodotti che vanno dall’artigianato ai graffiti, dal designer alla letteratura.
L’arte, allora, può esercitare sulla comunità una certa influenza; a tal proposito, Banfi ha scritto che l’artista deve «filtrare e cristallizzare luminosamente nella sua opera le energie di sviluppo del vivere sociale».
Riprendendo Tabucchi, secondo il quale «l’intellettuale non deve creare delle crisi, ma mettere in crisi», l’intellettuale potrebbe mettere in crisi un mondo in cui le soggettività sono alienate e ogni cosa si trasforma in una giungla di immagini, di sagome effimere, di provvisorietà; un mondo in cui si scalza, ad esempio, il valore di famiglia e si lede il diritto naturale di un bambino ad avere per genitori un padre=uomo e una madre=donna: un mondo senza più valori coesivi, insomma.
Allora, l’intellettuale deve parlare, produrre, riproporre linee di tendenza che tengano conto dello spirito e della mente dell’uomo che certo non hanno cittadinanza nel mondo della comunicazione totale.
E continuando con Antonio Tabucchi, «non è possibile, che l’intellettuale, quando la casa brucia, si limiti a chiamare i pompieri», bisogna operare anche in situazioni di difficoltà; Montale metaforicamente si accontentava della piccola fiamma di un fiammifero!
Dall’alto della sua sensibilità e umanità, l’intellettuale deve mantenersi freddo davanti alle vetrine rilucenti, sordo alle sirene del successo e del consumo; e, poi, deve convincersi che si può parlare anche nel deserto, nella sordità più assoluta, con la speranza, però, che il vento trasporti l’eco delle parole sino a che almeno un orecchio ascolti.
I discorsi certamente devono disturbare e devono predicare valori, come piccola risposta alla dilagante “folla solitaria”. Banfi ha scritto: «L’arte può essere motivo di accentuata comunità, proprio in quanto crea tipi validi quali centro di riferimento […]: l’arte, idealizzandone il senso e la vita, conferma e promuove nuove forme di socialità, unità di gruppi e di funzioni […]. L’arte dà a tutte le forme della vita umana un’impronta se non d’eternità, d’ideale vitalità che penetra e ravviva le sue strutture sociali».
L’intellettuale, allora, è un’oasi, una polla nel deserto. Oggi più che mai si batte la solitudine con le proposte; e tra le priorità, è necessario che si ponga attenzione al Genere umano, per la cui salvaguardia, bisognerebbe pensare strategie di difesa atte a proteggerlo dalla trasformazione antropologica in atto, di cui si ignorano gli approdi.
È bene, allora, che l’intellettuale con la sua creatività produca, scevro da logiche contingenti o da mode effimere, e diffonda e manifesti i valori legati all’umanesimo e al mondo della tragedia, perché avvii con passo felpato una sorta di problematizzazione del presente e sia espressione viva, creativa ed oppositiva allo status quo.
In questa maniera l’intellettuale assolverà al compito non dato da nessuno (se non dalla propria coscienza) e permetterà alla Speranza umana di alzare ancora il suo vessillo, prima che venga ammainato definitivamente nel mondo dell’eteronomia.
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