Il teleromanzo de “L’Orlando furioso”

 

In collegamento con Ferrara trasmettiamo La pazzia di Orlando

XXIII  puntata del Teleromanzo L’Orlando furioso

Regia di Ludovico Ariosto

 

di Italo Spada

 

Senza TV e senza cinema, con il pericolo costante di imbattersi in qualche male intenzionato che si aggirava per le strade buie del paese, le serate dei borghesi e dei contadini del Quattrocento e del Cinquecento non dovevano essere allegre. Solo i Signori, ogni tanto, si divertivano come potevano: cene luculliane, feste al castello, coinvolgimento di suonatori, giocolieri, trovatori, giullari e teatranti e, tanto per darsi anche un tono di amanti della cultura, l’assunzione di poeti al loro servizio. Il ruolo dei poeti nelle corti comprendeva anche quello di inventare storie a puntate, scriverle e recitarle. La loro recita diventava, così, una sorta di “cinema orale”, con proiezione di immagini, luci e suoni sullo schermo della fantasia dei rispettabili uditori-spettatori che li avevano assunti al loro servizio.

 

È a Ferrara che Ludovico Ariosto – che doveva essere, in certo qual modo, lo Zeffirelli degli Estensi – ha la brillante idea di narrare le gesta del paladino Orlando riprendendo un tema già trattato da precedenti poeti, tra i quali l’ultimo in ordine cronologico era stato Matteo Maria Boiardo con L’Orlando innamorato. Pur avendo intrapreso questa sua fatica letteraria per celebrare le origini della famiglia estense e per farsi perdonare dal Cardinale Ippolito d’Este2, Ariosto si appassiona alla storia e rivela qualità di grande narratore filmico, attento alla sceneggiatura, ai ritmi, agli stacchi, al montaggio, alla scenografia, agli effetti speciali e alle tecniche di ripresa.

 

Esaminiamo qui, a titolo esplicativo, l’ultima parte del Canto XXIII, quello relativo alla pazzia di Orlando.

Questo l’antefatto. Orlando, inseguendo il saraceno Mandricardo, va a finire senza volerlo in mezzo a un bosco. Dopo avere girato a vuoto per due giorni, arriva in un prato verde, ombreggiato e attraversato da un bel ruscello. Fa caldo e il prode paladino, dopo essersi tolto l’elmo, la corazza e lo scudo, si concede una pausa. Il fatto è che in quello stesso luogo, qualche giorno prima, Angelica, la donna per la quale Orlando stravedeva, aveva incontrato Medoro, un bel ragazzo saraceno gravemente ferito, lo aveva portato in salvo nella casa di un contadino che fungeva anche da albergo (insomma, una sorta di bed and breakfast d’altri tempi) lo aveva curato e, come spesso accade nelle soap-opera, se ne era innamorata. Completamente stracotti, i due giovani amanti si erano appartati in quei luoghi solitari e, tra un bacio e l’altro, avevano inciso i loro nomi sugli alberi e nelle grotte senza molto rispetto per la natura, intrecciandoli con cuoricini e frasi romantiche. Orlando (anche a quei tempi “la fortuna era cieca, ma la sfiga ci vedeva benissimo”!) si ritrova così, senza volerlo, con quei nomi e quelle frasi sotto gli occhi. La sua prima reazione è quella di razionalizzare quanto gli sta accadendo e di cercare la spiegazione che più gli fa comodo: si tratta di un’altra Angelica, il nome “Medoro” è solo uno pseudonimo che Angelica ha dato a lui, non è stata lei a scrivere quelle parole ma qualcuno che ha imitato alla perfezione la sua grafia, tutto il marchingegno è opera dei nemici che lo sanno invincibile in battaglia e vulnerabile nella gelosia. Pallide scuse che rivelano definitivamente tutta la loro inconsistenza quando egli decide di andare a rifugiarsi nella casa di un pastore. Di male in peggio, il destino lo conduce nella stessa casa dove Angelica e Medoro avevano trascorso la loro luna di miele. Involontariamente, anche il pastore contribuisce a dargli il colpo finale: vedendolo giù di morale, dopo avergli raccontato con dovizia di particolari la storia dei due giovani amanti, gli fa vedere, a riprova della veridicità del suo racconto, il dono che la donna gli ha dato per l’ospitalità ricevuta. È un bracciale d’oro; quello stesso bracciale che Orlando aveva regalato ad Angelica. È la fine: Orlando scoppia a piangere, si allontana dalla casa del pastore e ritorna a vagare nel bosco.

 

Siamo al verso 233, ottava 129 del Canto XXIII. Il momento della pazzia di Orlando, abilmente preannunciata da Ariosto ai suoi lettori già nei primi versi del poema3, sta arrivando. All’alba, l’invincibile paladino si ritrova nello stesso posto in cui Medoro aveva scritto il suo ringraziamento alla natura per avere fatto da sfondo al suo amore (qui, la bella Angelica “spesso ne le mie braccia nuda giacque”) e l’invocazione ai passanti di rispettare quel luogo. In soggettiva di Orlando, anche noi rileggiamo quelle parole: c’è un fermo immagine che anticipa la catastrofe. I primi quattro versi dell’ottava 130 si gustano in ralenty: la spada di Orlando fa scintille, la pietra si sgretola, volano schegge in alto. La panoramica che segue di un paesaggio semidistrutto è solo una pausa prima del disastro: rami, ceppi, tronchi, sassi, zolle di terra finiscono nella limpida acqua del ruscello che diventa scura e torbida. La furia devastatrice di Orlando procede ad ondate. Ariosto gioca con i lettori-spettatori illudendoli: quando tutto sembra finito (Orlando stanco e sudato cade al suolo e resta immobile a fissare il cielo per tre giorni), ricomincia lo spettacolo. Non avendo nient’altro contro cui sfogare la sua ira, il folle geloso paladino si strappa maglie e piastre di dosso, lancia in tutte le direzioni l’elmo, lo scudo, gli arnesi, la corazza, le armi; sradica alberi secolari, pini, querce, olmi, faggi, ilici, abeti, cerri…

La spettacolarità della scena induce il poeta narratore ad insistere sui particolari, perché sa che “quanti hanno pagato il biglietto” godono nel vedere la distruzione. Le scazzottature in un saloon non possono prescindere dal lancio di bottiglie e dal volo di sedie e tavoli; gli inseguimenti d’auto devono provocare sfaceli nei mercati e mandare in frantumi le vetrine dei negozi; Ursus, Maciste e Rambo devono mettere fuori combattimento venti avversari con un solo pugno… Come potrebbe, allora, Orlando essere Orlando se non facesse quello che ha fatto?

Da ciò che si vede a ciò che si sente. Con uno stacco visivo e un attacco sonoro, l’azione si sposta e la scena di massa dei pastori – che, lasciando incustodito il gregge, accorrono sul luogo del disastro – chiude la puntata.

Da esperto narratore, Ariosto interrompe il racconto. Dice “Non voglio stancarvi“, ma tutti sappiamo che mente, perché le sue reali intenzioni sono quelle dell’audience: tenere viva la curiosità degli spettatori e dare loro appuntamento per un altro episodio, stessa ora, stessa rete.

 

L’Orlando Furioso – Canto XXIII

 

(…)

129

Pel bosco errò tutta la notte il conte;

e allo spuntar de la diurna fiamma

lo tornò il suo destin sopra la fonte

dove Medoro insculse l’epigramma.

Veder l’ingiuria sua scritta nel monte

l’accese sì, ch’in lui non restò dramma

che non fosse odio, rabbia, ira e furore;

né più indugiò, che trasse il brando fuore.

 

130

Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo

a volo alzar fe’ le minute schegge.

Infelice quell’antro, et ogni stelo

in cui Medoro e Angelica si legge!

Così restar quel dì, ch’ombra né gielo

a pastor mai non daran più, né a gregge:

e quella fonte, già sì chiara e pura,

da cotanta ira fu poco sicura;

 

131

che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle

non cessò di gittar ne le bell’onde,

fin che da sommo ad imo sì turbolle,

che non furo mai più chiare né monde.

E stanco al fin, e al fin di sudor molle,

poi che la lena vinta non risponde

allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,

cade sul prato, e verso il ciel sospira.

 

132

Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba

e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.

Senza cibo e dormir così si serba,

che ‘l sole esce tre volte e torna sotto.

Di crescer non cessò la pena acerba,

che fuor dal senno al fin l’ebbe condotto.

Il quarto dì, da gran furor commosso,

e maglie e piastre si stracciò di dosso.

 

133

Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,

lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:

l’arme sue tutte, in somma vi concludo,

avean pel bosco differente albergo.

E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo

l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;

e cominciò la gran follia, sì orrenda,

che de la più non sarà mai ch’intenda.

 

134

In tanta rabbia, in tanto furor venne,

che rimase offuscato in ogni senso.

Di tor la spada in man non gli sovvenne;

che fatte avria mirabil cose, penso.

Ma né quella, né scure, né bipenne

era bisogno al suo vigore immenso.

Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,

ch’un alto pino al primo crollo svelse:

 

135

e svelse dopo il primo altri parecchi,

come fosser finocchi, ebuli o aneti;

e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,

di faggi e d’orni e d’ilici e d’abeti.

Quel ch’un ucellator che s’apparecchi

il campo mondo, fa, per por le reti,

dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,

facea de cerri e d’altre piante antiche.

 

136

I pastor che sentito hanno il fracasso,

lasciando il gregge sparso alla foresta,

chi di qua, chi di là, tutti a gran passo

vi vengon a veder che cosa è questa.

Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo

vi potria la mia istoria esser molesta;

et io la vo’ più tosto diferire,

che v’abbia per lunghezza a fastidire.
 

 

 

 

 

luce

 

 

fermo immagine

soggettiva

 

 

 

 

ralenty

 

 

 

panoramica – pausa

 

 

 

 

 

accelerazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

fermo immagine

 

dissolvenza incrociata

 

 

 

primo piano

 

 

panoramica

 

carrellata

 

primo piano

 

 

 

 

 

Voce F.C.

 

 

 

 

 

 

primo piano

 

 

 

panoramica

 

 

montaggio delle attrazioni

 

 

stacco visivo

attacco sonoro

 

 

 

 

 

Voce F.C.

 

 

 

 
 

 

 

2 Nell’agosto del 1517,  il poeta, adducendo motivi di salute e di famiglia,  si era rifiutato di seguire il cardinale nella sua nuova sede vescovile di Agria, in Ungheria. (Cfr., a tal proposito, la prima Satira, indirizzata al fratello Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno che, invece, erano partiti al seguito del porporato).

3 “Dirò d’Orlando in un medesmo tratto / cosa mai detta in prosa mai né in rima: / che per amor venne in furore e matto, / d’uom che sì saggio era stimato prima” (vv. 9 – 12  del canto I)

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